La Commissione Europea ha avviato le consultazioni per la revisione della sua “economic governance”. Dopo anni di crisi e crescita anemica le regole europee hanno bisogno di una riforma che le liberi dai “pregiudizi teorici” da cui sono state ispirate.
Il problema è che le cose non sono andate “abbastanza male”. Con questa provocazione Paul Krugman ha tentato di spiegare, in un articolo pubblicato qualche tempo fa sulla Oxford Review of Economic Policy, come mai il crack finanziario del 2007-2008 non abbia portato nella teoria economia mutamenti paragonabili a quelli avvenuti dopo la grande crisi degli anni Trenta del Novecento. Quando la situazione si è fatta davvero critica, tanto il Governo americano quanto la Federal Reserve (FED) hanno buttato a mare l’inservibile cassetta degli attrezzi data in dotazione dalla modellistica macroeconomica di ultima generazione e si sono rivolti al buon vecchio Keynesismo post-bellico.
Notava Krugman che sia Ben Bernanke – allora presidente della FED – che Larry Summers e Christina Rohmer – i due principali consiglieri economici della prima amministrazione Obama, nonché gli architetti dello stimolo fiscale da 800 miliardi di dollari approvato nel 2009 – si erano formati al MIT o a Harvard negli anni Settanta. Erano insomma imbevuti di una cultura economica da economisti “d’acqua salata”. Quest’ultima era la tradizione coltivata nei colleges delle zone costiere degli Stati Uniti, ispirata alla cosiddetta sintesi neoclassico-keynesiana e distillata nella didattica universitaria attraverso il celebre modello IS-LM di Hicks e Modigliani. Dagli anni Ottanta in poi hanno invece prevalso gli economisti “d’acqua dolce”, ovvero quelli cresciuti alla corte dell’Università di Chicago, con tutto il loro bagaglio di “aspettative razionali” e sfiducia nell’intervento dello Stato.
E tuttavia le istituzioni che contano, sempre secondo Krugman, non hanno mai completamente sposato la “nuova moda” e sono state pronte a tirare fuori il loro “keynesismo istintivo” alla bisogna. Poco importa soppesare i limiti del vecchio paradigma della sintesi neoclassica (e, aggiungeremmo noi, la sua reale capacità di cogliere a pieno la lezione di Keynes da un punto di vista teorico). Il keynesismo post-bellico era “good enough” – buono abbastanza – per sapere che cosa fare politicamente.
Il ragionamento di Krugman è stato condotto da un punto di vista eminentemente “americano”. Qui in Europa, o almeno nei paesi della sua periferia, è lecito dubitare che le cose non siano andate poi così male. Da una prospettiva italiana – a dirla tutta – le cose stanno andando ancora “abbastanza male”, dato che il nostro paese si trova circa 5 punti percentuali di Pil sotto i livelli pre-crisi e la disoccupazione è al 9.8%. Gli Usa hanno recuperato i livelli pre-crisi nel 2011 (l’area euro nel 2015) e ora sono circa 20 punti sopra (l’area euro circa 8 punti sopra).
Esistono enormi differenze fra l’Italia e gli Stati Uniti, come fra l’Italia e il resto dei paesi dell’area euro. I problemi dell’economia italiana, ed europea, sono complessi e hanno radici profonde. Basti pensare che nella lista delle prime quindici compagnie mondiali per fatturato specializzate in prodotti tecnologici (elettronica, software, semiconduttori, ecc.) non figura nemmeno una società europea.
Eppure è difficile negare che le differenze nel sentiero della ripresa degli immediati anni post-crisi fra Stati Uniti da una parte, ed Europa e Italia dall’altra, non siano state anche influenzate dalle politiche fiscali adottate per farvi fronte. Se Krugman ha parlato di un “keynesismo istintivo” dei policymaker americani, in Europa sembra quasi si possa parlare di un rigido anti-keynesismo radicato nelle regole che sorreggono gli assetti istituzionali europei.
Da questo punto di vista l’iniziativa della Commissione Europea di avviare una revisione della sua Economic Governance giunge al tempo stesso tardiva e benvenuta. La prima fase del processo – fatta di una serie di consultazioni per raccogliere pareri sulle attuali regole – si concluderà alla fine del 2020. Il Commissario europeo all’economia, ed ex Presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni ha dichiarato che dati gli attuali limiti di azione della politica monetaria occorre una nuova cornice per consentire politiche fiscali anti-cicliche, oltre che per “mobilitare gli immensi investimenti necessari per affrontare il cambiamento climatico”. Gentiloni ha anche aggiunto che “la complessità delle nostre regole rende più difficile spiegare ai nostri cittadini cosa vuole ‘Bruxelles’, e questa è una cosa inaccettabile”.
In effetti, le regole attuali sono davvero complesse. I guai sembrano essere cominciati nel momento in cui si è deciso di misurare le variabili di finanza pubblica nei loro valori strutturali, vale a dire corretti per il ciclo economico e per le misure temporanee e una tantum. Ma la loro vera origine è più lontana ed è rintracciabile nell’ormai storico Trattato di Maastricht sottoscritto nei primi anni Novanta. È ormai innegabile che in quel passaggio storico sia stata drammaticamente sottovalutata la portata delle regole fiscali che ci stavamo impegnando a firmare. L’Italia, insieme agli altri paesi europei, decideva allora di stringere un cappio intorno alla propria politica di bilancio, già compromessa nella sua funzionalità dal cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981. Del resto la teoria economica a quell’epoca dominante vedeva lo Stato non solo come superfluo, ma come il maggiore, potenziale disturbatore della naturale tendenza di un sistema economico a convergere verso il pieno impiego delle proprie risorse.
In occasione della riunione del Consiglio europeo del marzo 2012, il Trattato intergovernativo sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (TSCG), la cui componente fiscale è il cosiddetto Patto di bilancio, ha poi imposto come obiettivo di medio termine, con preferibile recepimento a livello costituzionale, un limite del disavanzo pari allo 0,5% del Pil in termini strutturali (1%, se il rapporto debito/Pil è inferiore al 60%). L’intervento dello Stato si è così ridotto al solo operare degli stabilizzatori automatici, riconosciuti come componente ciclica del bilancio ed esclusa, appunto, dal cosiddetto saldo strutturale.
La regola del debito del Patto prevede invece che, per la quota del rapporto debito/Pil in eccesso rispetto al livello del 60%, ogni paese debba impegnarsi a conseguire un tasso di riduzione del debito pari a 1/20 all’anno nella media dei tre precedenti esercizi. Come se non bastasse, per velocizzare il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine, si è pensato bene di introdurre anche un vincolo alla crescita della spesa, collegando l’evoluzione di quest’ultima al tasso di crescita di medio periodo del Pil potenziale. In particolare, per i paesi che non hanno ancora raggiunto l’obiettivo di medio termine, l’incremento di spesa deve essere inferiore a quello del Pil potenziale e coerente con un miglioramento del saldo strutturale di almeno 0,5 punti in termini di Pil.
Tutto ciò ha portato a una politica economica del tutto miope, finalizzata solamente al rispetto di regole e parametri sempre più complessi. La politica di bilancio è stata completamente svuotata di senso e significato, inserendola in un valzer annuale di zerovirgola correttivi che a tutto somiglia fuorché a un disegno coerente.
Una politica fiscale a livello europeo avrebbe potuto compensare la stretta imposta a livello nazionale. Ma il fallimento della riunione straordinaria del Coniglio europeo dello scorso 21 febbraio non è che l’ultima dimostrazione di quanto questa strada sia impervia. Il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel era arrivato al vertice con una proposta di aumento del budget comunitario per gli anni 2021-2027 in realtà molto modesta. E ciò nonostante, i paesi cosiddetti “amici della coesione” – fra cui l’Italia – hanno incontrato una resistenza insuperabile.
È probabile che le consultazioni promosse dalla Commissione Europea contribuiscano a dimostrare come l’insoddisfazione verso questa architettura di politica economica sia ormai un sentimento diffusissimo. Ma affinché l’iniziativa del cambiamento non sia definitivamente lasciata alle rabbiose invettive dei sovranisti, stavolta sarà necessario molto di più di qualche vaga dichiarazione di intenti.
(*) Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Economia.
(**) Government Economic Service (Regno Unito).
Le responsabilità per le idee espresse nell’articolo sono interamente degli autori e non coinvolgono le istituzioni di appartenenza.