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Ttip, il trattato truffaldino

Secondo uno studio effettuato con il modello Onu, il Ttip danneggerebbe l’Europa e soprattutto esproprierebbe i governi della possibilità di decidere su quasi tutto

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La sigla, Ttip, starebbe per “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, ma una traduzione più fedele al significato sarebbe “Trattato Truffaldino da Imporre ai Popoli”. Truffaldino per come è presentato (“farà aumentare la crescita e l’occupazione”), per il segreto in cui si è tentato di avvolgere le trattative, per la mistificazione delle conseguenze (“non ridurrà le norme per proteggere la salute”, “non riguarda i servizi pubblici”) e per il tentativo di subordinare le scelte dei governi agli interessi delle multinazionali.

Ormai molto se ne è scritto e per fortuna il segreto delle trattative è stato violato da fughe di notizie che hanno più che confermato quelli che prima erano soltanto sospetti. Tanto che perfino un governo conservatore come quello francese (come? sono socialisti? ma va’…), già sotto pressione per i sondaggi – confermati dai risultati delle ultime amministrative – che danno il partito sulla via della sparizione, ora si schiera contro la sua approvazione. Matthias Fekl, il segretario al Commercio estero che segue la trattativa, ha invitato l’Italia a fare fronte comune contro l’approvazione, ma l’atteggiamento del nostro paese non fa affatto sperare bene. Il presidente Matteo Renzi si è sempre dichiarato a favore dell’accordo senza riserve. Già nel 2014 aveva dichiarato che ” ogni giorno che passa è un giorno perso”, spalleggiato dall’allora vice ministro e oggi ministro dello Sviluppo Carlo Calenda; posizione ribadita in modo ancor più deciso dopo l’incontro a Washington, poco più di un anno fa, con Barack Obama, che all’accordo ha mostrato di tenere molto. E nel Pd, se c’è qualche oppositore tra i rimasugli della sinistra interna, abbondano però i sostenitori sfegatati, come ad esempio il deputato Giampaolo Galli un cui recente tweet ha provocato una valanga di reazioni in rete varianti fra il critico, l’infuriato o addirittura l’insultante. E’ quindi il caso di fare un breve ricapitolo a beneficio di chi avesse perso qualche puntata.

L’aspetto forse più noto è quello dei famosi “tribunali privati” a cui si possono rivolgere le multinazionali quando ritengono che i governi abbiano varato norme che danneggiano i loro affari. Dove questo meccanismo è stato accettato si sono verificati fatti al di là dell’assurdo, come la causa della Philip Morris al governo australiano per aver varato leggi anti-fumo o quella dell’americana Lone Pine al Canada per aver vietato il fracking, la tecnica di estrazione del gas che non solo gli ecologisti ritengono pericolosissima per l’ambiente. Su questo punto gli europei hanno elaborato una proposta alternativa, meno scandalosa, che gli Usa non hanno ancora accettato. Ma anche se la accoglieranno, come è possibile se dovesse rimanere l’ultimo ostacolo a un accordo, sarà stato neutralizzato (almeno in parte) solo uno dei fattori che rendono il trattato improponibile.

Come ad esempio la posizione americana rispetto alla sicurezza per gli alimenti e per le medicine. In Europa vale il “principio di precauzione”: hanno via libera i prodotti per i quali, per quanto possibile, è stato verificato che non nuocciono alla salute. Negli Usa per ottenere il via libera alla commercializzazione è sufficiente che per il prodotto in questione non ci siano rischi evidenti. Nel dubbio, in Europa la vendita viene vietata, in America no, almeno finché non si manifestino effetti dannosi. In pratica, un sistema che trasforma i consumatori in un popolo di cavie. Nell’agroalimentare si prevede il riconoscimento automatico delle rispettive regolamentazioni,  salvo affrontare in seguito, in sede di risoluzione delle controversie e singolarmente, i problemi che venissero sollevati. Per esempio sui pesticidi: ben 82 di quelli autorizzati negli Usa sono invece vietati nell’Unione europea; o sugli animali allevati con ormoni, pratica anche questa consentita in Usa e vietata da noi. E si potrebbe continuare a lungo. C’è poi la questione dei nostri marchi Dop e Igp, che gli Stati Uniti, dove tre prodotti su quattro venduti con nome italiano non sono italiani per niente, non vogliono riconoscere.

Ancora: è vero che il Ttip non riguarda i servizi pubblici? Certo: ma è vero col trucco. E il trucco sta nella definizione di “servizi pubblici”, come spiega in questo articolo Marco Bersani di Attac. Non è servizio pubblico quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo, e nemmeno quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum. Ne deriva che sanità, istruzione, servizi idrici e via elencando non rientrano nella definizione: non ci rientra quasi niente, tranne la difesa, l’ordine pubblico e la giustizia. Insomma, si tornerebbe più o meno allo Stato dell’800. Ulteriori norme si preoccupano di escludere gli obblighi di servizio universale, di impedire che vengano varate dagli Stati eventuali norme restrittive, di stabilire che qualsiasi appalto pubblico debba essere assegnato con una gara internazionale: “Questa clausola, ad esempio, renderà impossibile ad un ente locale riservare la gara d’appalto per le forniture delle mense scolastiche a produttori biologici e a km zero”. E’ solo uno dei possibili esempi, naturalmente.

Dunque diremmo addio ai servizi pubblici (visto che sarebbero tutti privatizzati), a tutta una serie di norme a protezione della salute, alla possibilità per uno Stato di decidere qualsiasi cosa in modo diverso da quanto prevede il trattato, anche se ritiene che ci sia in ballo un rilevante interesse pubblico. Ma se dovessimo accettare tutto questo, almeno diventeremmo molto più ricchi?

Ebbè, neanche questo “premio di consolazione”. Sugli effetti economici del Ttip sono stati fatti molti studi, che naturalmente valgono quel che valgono: anche l’adozione dell’euro, secondo gli studi di allora, ci avrebbe dovuto far entrare nel regno dell’abbondanza. Ma è interessante il fatto che anche le previsioni elaborate da centri studi favorevoli a Ttip concludano che i benefici avrebbero le dimensioni di una zanzara: solo che la chiamano elefante.

Una rassegna di alcuni di questi studi è stata fatta da Jeronim Capaldo, economista della Tufts University attualmente all’Unctad, che ha anche fatto delle sue proiezioni utilizzando il modello delle Nazioni Unite. Un commento dello studio di Capaldo e altre spiegazioni utili per capire il contesto di questi esercizi sono in un articolo di Alberto Bagnai. Ebbene, ecco quali sarebbero gli effetti (ipotetici) sul Pil di Europa e Usa con una completa attuazione del Ttip.

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Come si vede, la stima più ottimistica, quella del Cepr, parla di un aumento del Pil europeo dello 0,49% in 13 anni (lo studio è del 2014). Fa lo 0,03% all’anno. C’è bisogno di commentare?

Quindi, anche secondo le stime di chi al Ttip non è contrario, per la crescita non serve. Servirà allora a qualche altra cosa, magari a far aumentare l’occupazione? Beh, veramente no, neanche quello. Anzi, a stare alle proiezioni elaborate con il modello delle Nazioni Unite l’occupazione in Europa diminuirebbe, di circa 600.000 posti. Ecco la tabella dove si legge.

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Secondo quel che risulta da questo modello il Ttip farà anche diminuire i redditi da lavoro in Europa, al contrario di quanto ipotizza il Cepr secondo cui, invece, i redditi medi delle famiglie aumenterebbero di 545 euro (sempre in 13 anni). Ma, anche se la prendessimo per buona, chi ci dice che questo aumento “medio” non sia come il famoso pollo di Trilussa, ossia che andrà effettivamente in tasca a chi lavora? Se andasse tutto ai profitti – cosa che, con i tempi che corrono, non ci sentiremmo di escludere – la media sarebbe salva, la soddisfazione di chi lavora un po’ meno.

Da che cosa dipendono queste differenze rispetto agli effetti del Ttip? Dalle ipotesi di base dei modelli, e in particolare da quella relativa all’attività economica, che per il modello Onu è influenzata essenzialmente dalla domanda aggregata, per gli altri dall’efficienza produttiva. Il modello Onu, inoltre, tiene conto degli effetti delle variazioni dei flussi commerciali anche sugli altri paesi, cosa di cui gli altri modelli non si occupano.

I flussi commerciali, comunque, sono stimati in crescita tra Europa e Usa, ma con effetti netti tutto sommato modesti. Per il Cepr, l’aumento netto del totale delle esportazioni sarà dell’8% negli Usa e del 5,9% nella Ue. Ma, osserva Capaldo, “questi aumenti degli scambi commerciali transatlantici vengono raggiunti a scapito del commercio interno della Ue. Implicitamente ciò significa che le importazioni dagli Usa e dai paesi non-Ttip tramite gli Usa, sostituiranno buona parte dell’attuale commercio tra i paesi Ue”. Di qui gli effetti negativi in Europa, dove la domanda di prodotti a maggior valore aggiunto verrebbe spiazzata da quella per prodotti a basso valore aggiunto, dove l’Ue è meno competitiva, oltre al fatto di renderla più esposta a eventuali shock americani. Dallo studio di Capaldo risulta tra l’altro che la Francia sarebbe tra i paesi che subirebbero più danni, e forse questo ha qualcosa a che fare con le decise prese di posizione di Hollande e Fekl, che magari avranno visto quello o altri studi analoghi.

Resta da capire perché, stando così le cose, si stia ancora discutendo del Ttip. La risposta più logica è che gli europei hanno sempre trovato difficile dire di no all’America, e l’America a questo trattato ci tiene molto: l’esercizio con il modello Onu ci chiarisce anche il perché, visto che ne risulta che è la sola che ci guadagnerebbe. E in questa ottica ancor meno stupisce che la Francia si sia messa alla testa della ribellione, dato che è la sola, fin dai tempi di De Gaulle, che non ha paura di scontrarsi con gli Usa. L’Italia invece ha sempre fatto sua la risposta di Garibaldi (“Obbedisco”!) e Renzi con (quasi) tutto il Pd è appunto su questa linea.