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Scocca l’ora dell’idrogeno, ma blu o verde?

Treni e centrali a idrogeno, pubblicizzato come l’energia pulita per eccellenza. Dimenticando di specificare che esiste idrogeno blu, da metano, e verde, da fonti rinnovabili. Non si indicano poi i rischi, come l’ulteriore dilapidamento delle risorse idriche. Interrogarci sulle scelte per la transizione energetica è esiziale.

Ritorna l’idrogeno e da molte parti viene salutato come la svolta energetica epocale, quella che liquiderà l’era dei combustibili fossili. Si resta perplessi da tanta enfasi. C’è il sospetto, come denunciano anche Mario Agostinelli e Gianni Tamino, che esistano potenti intenzioni di promuovere l’idrogeno blu ricavato dal metano come l’alternativa energetica ecologica, come nel caso della riconversione della centrale a carbone di Civitavecchia. O come quando si decanta il progetto appena varato dalla Commissione europea che ha assegnato alla azienda spagnola Costruzioni e Ferrovie lo sviluppo di un progetto (chiamato, con sigla difficile, Fch2Rail) da 10 milioni di euro per la realizzazione di un prototipo di treno alimentato a idrogeno. Un progetto che, sotto la direzione di Caf, appunto, comprenderà  vari Paesi – per ora Spagna, Belgio, Germania e Portogallo – e aziende anche non europee tra cui la Toyota, con l’obiettivo – si dice – “di creare un treno a zero emissioni e un livello di funzionamento simile a quello delle unità alimentate da motori diesel”.

Ma si dimentica di specificare che per essere “pulito” idrogeno deve essere verde, cioè prodotto da fonti rinnovabili. Non fa invece ben sperare anche la semplice omissione della parola “acqua” di quanti parlano e scrivono di idrogeno. L’idrogeno verde, dicono, è ricavabile dalle fonti rinnovabili del fotovoltaico e dell’eolico, punto e basta. L’acqua non c’è. Non so se non la si considera una fonte, certo è che l’idrogeno è verde solo perché è ricavato dall’elettrolisi. Senza acqua, dunque, non si produce nessun idrogeno verde.

Il fotovoltaico e l’eolico producono l’energia per l’elettrolisi dell’acqua, ma è quest’ultima la materia generatrice e non inquinante e questa materia, è sbagliato ignorarlo, non è rinnovabile.

Non lo è nemmeno quando l’usiamo nell’idroelettrico. Ora più che mai quando spariscono i ghiacciai. Ora che tocchiamo con mano quanto le dighe, le condotte forzate e le deviazioni dei fiumi, hanno manomesso i fiumi e falde e fatto mancare l’acqua a valle ai contadini e alla biodiversità.

Il ciclo dell’acqua non ricarica automaticamente gli invasi da cui è stata prelevata, non si può contabilizzarla con le equazioni della fisica: alla fine ritorna sotto forma di vapore e di pioggia e tutto quadra, si pensa. Non è così. Che l’acqua sia sempre quella è solo teoricamente vero, in soli 60 anni, abbiamo perso più della metà dell’acqua disponibile ai viventi.

Nel 2050 la metà della popolazione avrà problemi all’accesso minimo vitale e nel 2030 una marea di 700 milioni di persone girerà disperata per il mondo prevalentemente per mancanza di acqua.

Ci si domanda pertanto se non sia improprio parlare di energia prodotta dall’idrogeno, quando in realtà dovremmo parlare di energia prodotta ancora dall’acqua e da un suo ulteriore sfruttamento.

Pur non essendo esperti in fisica, è lecito ritenere che si debba prevedere l’uso dell’idrogeno verde nei luoghi dove il prelievo dell’acqua e il suo utilizzo, tramite gli impianti di trasformazione in combustibile anche in forma di vapore, ci permettano di restituirla allo stesso invaso.

Nel pensare all’idrogeno e a scenari epocali di trasformazione energetica, dovremmo sottrarci alla cultura delle opportunità che si aprono per il mercato.

Il sistema fa conti economici e pensa: quanto mi costa produrre idrogeno verde, comprimerlo renderlo liquido e utilizzarlo? Il fotovoltaico e l’eolico sono diventati a buon mercato? Bene, allora si parte. Ma non può essere questo il solo paradigma. Oggi c’è la vita dei viventi in discussione.

Quando pensa all’idrogeno con interesse, il sistema finanziario e delle multinazionali digitali, agroindustriali e presunte green, fa i suoi conti e oggi, proprio nel pieno della crisi Covid, queste multinazionali stanno accelerando una rivoluzione che potrebbe rivelarsi anche devastante prendendo in considerazione scenari ampi ai quali dovremmo prestare molta attenzione fin da adesso.

Tra questi c’è l’idea di poter attingere a piene mani all’acqua dei mari e degli oceani che rappresentano il 70 per cento della superficie del Pianeta. Una enormità, una nuova colonizzazione di questo illimitato territorio: “liquido, azzurro e agonizzante, in cui far pascolare il grande businnes dell’acqua”. E’ questa la  questione in gioco. E’ solo questione di costi e di ricerca tecnologica e poi pronti al via: acqua desalinizzata e distillata da usare per produrre energia dall’idrogeno, per la siderurgia, i mezzi di trasporto, per riscaldare le città. Acqua desalinizzata da bere e per soddisfare il molok dell’agricoltura intensiva. Acqua da produrre, manipolare, trasportare, da vendere e pagare senza limiti. Tutto questo, cosa significherà per il Pianeta, per noi viventi, per il delicato equilibrio degli oceani in cui la vita si sta spegnendo rapidamente? Di questo non ne parliamo.

Cosa vorrà dire trasformare l’acqua del mare in titoli azionari? Non è argomento o oggetto di confronti. E che dire del paradigma tecnocratico che nei giovani si erigerà a dogma: tecnologia e mercato dell’acqua ci salveranno. Parlarne, coinvolgere il più possibile tutti, bisogna farlo ora e prima di percorrere certe strade, è doveroso.

La storia e le avvisaglie di ciò che ci aspetta non consentono troppo ottimismo ma tanti fattori ci possono ispirare anche uno spirito diverso.

Lungi da noi l’idea di fermare il progresso scientifico e tecnologico o di rallentare la genialità umana, solo c’è da chiedersi se oggi non ci si debba interrogare a fondo ogni volta che pensiamo a nuove seducenti prospettive di sviluppo tecnologico. Ovvero se il motto galileiano “provando, sbagliando e riprovando” sia ancora un così un indiscutibile paradigma. Gli “sbagli di strada” sono i mutamenti climatici, altri hanno nomi tragici: Hiroshima, Cernobyl, Fukushima. Oggi l’errore mette in discussione la vita del genere umano e di tanti viventi sul pianeta. Rallentare certi sogni tecnologici e sottoporli alla lentezza della democrazia, semplicemente pensarci bene, è adottare il principio di precauzionalità universale, dando vincoli stringenti, partecipati e metterli realmente in pratica.

Incluso prima di infilarci nell’era dell’idrogeno e della manomissione degli oceani. Serve un confronto che coinvolga i giovani che si interessando di ambiente e del loro futuro come quelli del movimento Fridays for future, i sindacati, il mondo scientifico.

Non dimentichiamo che il 1900 iniziò all’insegna della Torre Eiffel che svettava nel cielo, simbolo della illimitata capacità del genio umano. Il 2000 è iniziato all’insegna del disastro climatico, idrico e ora pandemico. Il 2020 inizia con il mare che muore di plastica, con 500 cetacei che si spiaggiano disorientati in Tasmania, con la morte del mare della Kamchatka e quella delle foche della Namibia.