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Lo spettro del debito si aggira per gli stati

L’austerità porta recessione. Ma con debiti eccessivi i governi si consegnano alla finanza. Tocca alla politica scegliere come e quando ridurre il deficit

“…la possibilità per uno stato di contrarre dei prestiti è un bene, un bene incontestabile…”

(P. Leroy-Beaulieu, professore al College de France, 1877)

“…gli stati sono i principali clienti, molto assidui, di questo immenso lupanare…; sono gli abominevoli mercati che, da una ventina d’anni, pagano i salari dei professori e delle infermiere…” (P.-A. Delhommais)

“…(il mercato finanziario) esige sempre di più dai governi, lasciando loro ormai come possibilità soltanto quella di uccidere la loro economia o di mancare gli obiettivi prefissati…” (P. Artus)

“…l’obiettivo comune è tagliare la spesa pubblica…” (S. Berlusconi)

“…deve essere ristabilito il primato della politica sui mercati…” (Angela Merkel)

E’ certamente dalla destra politica, nonché da Wall Street e dalla City, che vengono solitamente gli attacchi ai deficit pubblici degli stati, ritenuti sempre eccessivi, anche se abbiamo assistito relativamente di recente al fenomeno di un governo democratico statunitense che mette il bilancio in equilibrio e a quello invece dei precedenti e successivi governi repubblicani che lo squilibrano.

Ora i conservatori sono all’attacco. La stampa, i manager di Wall Street, i politici neo-liberisti annunciano che è il governo il vero “sub-prime”, che lo stato è un gigantesco “schema Ponzi-Madoff” e così via.

Escono degli studi, nei quali appare a volte difficile distinguere la verità dalle possibilità e dalle ipotesi, che mostrano come la tendenza dei deficit pubblici dei vari stati, nei prossimi decenni, in mancanza di interventi correttivi, sia quella ad una loro crescita incontrollata.

Guida la carica l’autorevole storico inglese Niall Ferguson, con vari articoli comparsi di recente sulla stampa anglosassone, che seminano in particolare un allarme elevato sul deficit pubblico statunitense e sulla tenuta dell’euro; sono inoltre stati pubblicati di recente almeno due scritti di tipo scientifico in tema di deficit pubblici, il primo un volume di Reinardt e Rogoff, il secondo un breve saggio di Cecchetti, Mohanty, Zampolli, ambedue molto documentati, che hanno avuto una vasta risonanza e che comunque hanno contribuito a seminare il panico in giro. Nel frattempo gli zelanti burocrati di Bruxelles suonano da tempo l’allarme sui deficit eccessivi e moltiplicano le ingiunzioni ai vari stati perché tengano a bada i loro bilanci; si uniscono con forza al coro anche l’Ocse – che, tra l’altro, da quando esiste non ha quasi mai azzeccato una previsione – e il Fondo Monetario Internazionale.

In Gran Bretagna il nuovo governo vuole tagliare da subito la spesa pubblica, mentre negli Stati Uniti c’è da tempo un sordo agitarsi dei repubblicani per ridurre un deficit giudicato come eccessivo; peraltro, essi non dicono dove si dovrebbe tagliare –per la verità non lo sanno, perché la grande parte delle spese vanno in direzione di programmi che sono molto popolari nel paese, come osservato tempo fa da P. Krugman-, ma l’importante è seminare l’allarme; la loro pressione ha, tra l’altro, spinto Obama a insediare una commissione per i tagli alla spesa che dovrebbe rendere il suo verdetto in merito entro la fine dell’anno.

La crisi greca ha ora spinto in direzione dell’intervento sui bilanci pubblici e parallelamente della flessibilità salariale in diversi paesi del nostro continente. Ma la crisi europea non è tanto o solo fiscale e non vi si può rimediare semplicemente riducendo direttamente i deficit pubblici. Il principale problema europeo resta, non solo a nostro parere, quello della scarsa crescita; senza sviluppo i conti pubblici non si risanano. Si può cercare sino ad un certo punto di fare dei nuovi debiti per ripagare quelli vecchi, ma nel lungo termine solo le risorse generate dall’economia reale possono permettere di governare il problema.

Tagliare i deficit pubblici senza che l’economia sia veramente ripartita e peraltro senza neanche un sistema bancario in grado di sostenere adeguatamente le imprese, appare una strada quasi sicura verso la stagnazione o anche la recessione.

Si potrebbe dire che le banche non amano i deficit budgetari anche perché essi sono una via allo sviluppo economico che è alternativa a quella dei finanziamenti bancari (Galbraith, 2010); inoltre, di questi tempi, sviluppare l’isteria anti-deficit può distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dalla possibile ristrutturazione di un sistema bancario che non funziona, ridotto ad essere “un cartello gestito da una plutocrazia incompetente” (Galbraith, 2010). Per Wall Street agitare lo spettro dei deficit pubblici serve perfettamente, tra l’altro, ad aumentare la volatilità dei mercati, ciò che permette di ottenere facili guadagni speculativi. Inoltre, su di un altro fronte, contenere l’indebitamento pubblico significa contenere il ruolo dello stato (Bagnai, 2010), ciò che può rappresentare per molti un risultato politico allettante.

In realtà, può essere certamente naturale che i deficit pubblici aumentino da un anno all’altro, almeno entro certi limiti. In ogni caso c’è deficit e deficit, c’è un tipo di deficit buono e un tipo cattivo. Molto dipende da quello che ci si fa con i soldi presi a prestito: ci sono debiti fatti per spingere in avanti i processi di sviluppo, basati ad esempio su adeguate politiche di spinta all’innovazione e all’educazione e debiti fatti invece per alimentare le clientele, favorire i ceti privilegiati, pagare altri debiti.

Più in generale, le variabili da cui dipende la sostenibilità del deficit pubblico in un certo paese sono molte: la fiducia che ispira lo stesso paese, l’andamento del tasso di sviluppo generale dell’economia, quello dei tassi di interesse e la dinamica del risparmio interno, le tendenze demografiche, il livello del surplus primario di bilancio, il grado di copertura delle spese attraverso le imposte, la capacità di prestito nella propria moneta e nel proprio paese, la volontà/capacità dei governi ad aumentare le tasse e a ridurre le spese, in particolare in certe direzioni, la situazione dei mercati finanziari, la possibilità di monetizzare i deficit, ecc..

In altri termini, la stessa necessità di una riduzione del debito e le sue eventuali modalità non sono un problema tecnico o solamente tecnico, ma di scelte politiche.

D’altro canto, tutto questo premesso, non si può non constatare che i deficit pubblici non cessano di aumentare a ritmi molto sostenuti nei paesi occidentali; come ha affermato di recente un autorevole banchiere tedesco è sempre più marcata una divisione mondiale dei ruoli, al nord i debiti, al sud la crescita. Il debito pubblico a livello globale si eleva oggi a 35.000 miliardi di dollari. Esso è triplicato in venti anni. Con l’eccezione dei tempi di guerra, le finanze pubbliche nella maggioranza dei paesi sviluppati sono in uno stato peggiore che in qualsiasi periodo di tempo dalla rivoluzione industriale ad oggi, come ci ricorda W. Buiter (Schwartz, Dash, 2010).

Un elevato deficit pubblico comporta tra l’altro almeno quattro inconvenienti di peso. Il primo è quello di consegnarsi progressivamente nelle mani dei mercati finanziari, come afferma a questo proposito ad esempio P. A. Delhommais (Delhommais, 2010) : negli ultimi decenni il potere dei mercati sugli stati è aumentato allo stesso ritmo con cui è aumentato l’indebitamento di questi ultimi. Il secondo fa riferimento al fatto che di solito i deficit elevati frenano o annullano i tassi di crescita dell’economia. Il terzo è relativo alla questione che in ogni caso, quando i governi intervengono in una situazione di difficoltà, di solito riducono l’importo degli interventi destinabile alle spese sociali, parallelamente all’ aumento di quello degli interessi passivi. Il quarto, infine, è quello che più debiti si fanno, più appare difficile trovare qualcuno che ci presti degli altri soldi per andare avanti, o che ce li presti a tassi di interesse moderati.

Un caso particolare è certamente rappresentato dal Giappone, paese in cui il rapporto deficit/pil ha ormai raggiunto almeno il 200%, ma che continua a trovare facilmente credito e a pagare tassi di interesse molto bassi. Tutto bene dunque? Certamente no, perché mentre è vero che il deficit è finanziato pressoché totalmente con il risparmio interno, in un mercato in cui i tassi di interesse sullo yen sono in generale molto bassi, è facile prevedere che fra qualche anno tale fonte non sarà più sufficiente a coprire i nuovi debiti e che il paese si troverà davanti a delle scelte potenzialmente drammatiche.

Di fronte all’offensiva politica della destra bisogna in ogni caso combattere quella che in Europa si va caratterizzando come una politica di austerità troppo rapida, troppo drastica, con una qualità degli interventi che non va molto nella giusta direzione. Bisogna sottolineare, tra l’altro, che per essere accettabile il rigore nei conti pubblici deve essere equo e compatibile con lo sviluppo.

Intanto una riduzione significativa delle spese è possibile senza attentare alla qualità dei servizi pubblici, ciò che richiede peraltro di riformare lo stato e i servizi sociali (Attali, 2010); si pensi soltanto da noi al livello della spesa sanitaria in alcune regioni, o alle spese previste per alcune opere pubbliche faraoniche, o per il settore militare.

Appare anche necessario un aumento nel livello delle entrate, ciò che richiede delle scelte politiche nette. E’ evidente come da noi, oltre che combattere efficacemente l’evasione, bisognerebbe intervenire sulla tassazione delle rendite e dei patrimoni. Più in generale, bisogna pensare ad una riforma fiscale che allinei la tassazione dei redditi da capitale con quelli del lavoro.

Su questi fronti si vedano le proposte avanzate di recente dalla campagna “Sbilanciamoci!” (www.sbilanciamoci.org), già ricordate da un articolo di R. Carlini su questo stesso sito.

Testi citati nell’articolo

-Artus P., Les marchés sont, pour une fois, raisonnables, Le Monde, 16-17 maggio 2010

-Attali J., Tous ruinés dans dix ans? Dette publique: la dernière chance, Fayard, Parigi, 2010

-Bagnai A., Se cade anche il muro dell’euro, www.sbilanciamoci.info, 12 maggio 2010

-Delhommais P.-A., Merci les marchés et vive la rigueur, Le Monde, 16-17 maggio 2010

-Galbraith J. K., In defense of deficits, The Nation, 22 marzo 2010

-Schwartz N. D., Dash E., Fears intensify that euro crisis could snowball, www.nyt.com, 16 maggio 2010