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Le complicate prospettive delle banche europee

L’Unione bancaria europea è rimasta a metà, e le banche continentali soffrono in competizione con i giganti americani e cinesi. Le criticità riguardano la ricapitalizzazione imposta dal 2021 ma anche la sfida di lungo periodo del fintech e dell’intelligenza artificiale. E non solo.

Da diversi anni, più o meno a partire dalla crisi del 2008, le banche, in particolare quelle più grandi ed europee, si  trovano di fronte a problemi crescenti e, almeno alcuni, di difficile soluzione. Una parte di tali difficoltà è stata proprio messa in rilievo o innescata dalla crisi citata, qualcun altra ha invece origini di tipo autonomo. Insieme, pongono molti interrogativi su di una tranquilla tenuta del sistema nel tempo. 

Intanto, sempre da anni, molti studiosi e specialisti del settore mettono in qualche modo in discussione non solo gli attuali modelli di funzionamento delle banche, ma anche l’opportunità di continuare a permettere loro di occuparsi di molte delle loro tradizionali attività, fino ad investire lo stesso loro modo di essere. Siamo arrivati così, ad esempio, al referendum svizzero del giugno del 2018,  che voleva in sostanza impedire che gli istituti bancari continuassero a creare moneta, attività che è da secoli alla base del funzionamento del sistema bancario.

Analizziamo brevemente soltanto alcuni dei problemi cui si trovano oggi di fronte gli istituti europei. 

Il confronto con le banche statunitensi e con quelle cinesi 

Ricordiamo intanto che il rendimento sul capitale delle banche dell’eurozona nel 2018 si è collocato intorno al 6,1%, valore pari a meno della metà di quello degli istituti statunitensi nello stesso anno ( che si posiziona intorno  al 13%) (Graziani, 2019). E la cosa si trascina da tempo.

Intanto mentre gli Stati Uniti costituiscono un mercato finanziario unico, in Europa la situazione appare ben diversa.

Gli istituti Usa sono poi molto più aggressivi di quelli europei, tanto che la loro quota di mercato in Emea (Europa, Africa, Medio Oriente) nel settore del corporate & investment banking è passata dal 31% del 2012 al 40% del 2018, mentre quella delle banche europee negli Stati Uniti è scesa nello stesso periodo dal 29% al 20% (Graziani, 2019).

Ha giocato su tali risultati anche la maggiore rapidità del sistema statunitense ad affrontare la crisi del 2008 e anche il più spinto protezionismo Usa nel settore. Inoltre in Europa si registrano mercati più competitivi per la molto maggiore presenza di banche piccole e medie, mentre le banche di Oltreoceano sono più presenti nel settore dell’investment banking, mediamente più redditivo di quello della banca di dettaglio. 

D’altro canto va sottolineato come sul piano dimensionale le banche più importanti al mondo sono da tempo quelle cinesi, che occupano i primi quattro posti della classifica come livelli di attività, mentre la loro redditività appare abbastanza sacrificata. Tali istituti sino ad oggi hanno svolto una limitata attività all’estero, ma la situazione potrebbe presto cambiare.

Bisogna infine ricordare come i valori di Borsa delle banche del continente siano oggi pari a meno dei tre quarti di quelli contabili; questo significa o che gli investitori non credono che le attività degli istituti valgano quanto dichiarano gli stessi, o che non si intravede in prospettiva la possibilità di profitti adeguati e sostenibili nel lungo termine (The Editorial Board, 2019).   

L’occupazione nel settore

Per decine di anni in Italia, come nel resto dei paesi europei, l’occupazione in banca è continuata a crescere, mentre i buoni livelli retributivi, varie altre provvidenze e la sicurezza del posto di lavoro contribuivano a fare dell’impiego nel settore un traguardo molto ambito. 

Ma nel corso del tempo la situazione è cambiata. Lo sviluppo tecnologico ha investito e continua ad investire sempre più fortemente il comparto; l’avvento ora del fintech, con Cina e Stati Uniti nel ruolo di protagonisti, pone nuovi problemi. Sono parallelamente da registrare prima la crisi e comunque ora il rallentamento dell’economia del continente, poi la più stringente regolamentazione da parte delle varie autorità di supervisione, infine la già citata maggiore concorrenza statunitense. 

Così, mentre l’impiego in Europa nel settore si collocava nel 1997 intorno alle 2.850.000 unità ed aveva raggiunto il valore di 3.260.000 addetti nel 2008, esso è poi  sceso a 2.670.000 nel 2018, con la tendenza ad un ulteriore ribasso (Benoit e altri, 2019). Gli annunci sulla riduzione degli effettivi da parte delle varie banche si succedono in effetti di mese in mese (Chocron, 2019).

Secondo l’agenzia Bloomberg da gennaio ad agosto 2019 si sono persi nel settore nel mondo 58.200 posti di lavoro, di cui il 90% in Europa (52.500 impieghi circa). 

Le politiche della Banca Centrale

La BCE, così come le altre banche centrali dei paesi occidentali, è stata molto occupata nell’ultimo decennio a mettere in atto delle politiche mirate a combattere prima le conseguenze della crisi del 2008 e poi la persistente debolezza dell’attività economica, nonché i bassi livelli di inflazione. Tali politiche, mentre sono riuscite ad evitare un andamento peggiore dell’economia reale, non hanno comunque ottenuto i risultati sperati, complice anche la mancanza di un parallelo intervento da parte dei governi attraverso opportune manovre di bilancio, una possibile politica di incremento degli investimenti pubblici, di aumenti  salariali, di riduzione delle tasse. 

Le politiche delle banche centrali mostrano così, sempre più, con il passare del tempo, i loro limiti. Esse si sono basate sul quantitative easing, sulla riduzione dei tassi di interesse, sulla messa a disposizione di ampie liquidità a favore delle banche.

Ora la BCE, con le misure da poco annunciate, riprenderà e per un lungo periodo l’acquisto di 20 miliardi di obbligazioni al mese; viene inoltre abbassato di nuovo il tasso di interesse sui depositi delle banche, portandolo al -0,50%. Per limitare l’aspetto negativo di quest’ultima misura viene poi annunciata un’esenzione parziale. E’ stato quindi deciso un nuovo programma di prestiti a lungo termine per le banche stesse.  

Tali misure hanno evidenti ripercussioni sui bilanci bancari; l’ulteriore taglio dei tassi riduce ancora i margini, mentre la disponibilità della BCE a fornire finanziamenti agli istituti si scontra con il fatto che “il cavallo non beve” e che l’economia in questo momento non chiede molti finanziamenti. 

Tra le conseguenze prevedibili di tali misure, bisogna ricordare la tendenza a tagliare i costi (e quindi il personale) e a rafforzare i processi di consolidamento e di digitalizzazione del sistema (Morris S. ed altri, 2019). La stessa BCE suggerisce in alcuni suoi interventi che è necessario favorire le aggregazioni tra imprese, anche a livello continentale. Cresce inoltre sui mercati la spinta speculativa, con un gonfiamento dei valori delle attività (azioni, immobili, ecc.), spinta di cui la BCE poco si cura. Ma l’azione della BCE sta riducendo la redditività strutturale delle banche europee nel lungo termine (Morris, 2019). 

Va sottolineato come il ribasso del tasso di intermediazione (differenza tra il tasso che viene riconosciuto ai depositanti e quello caricato sui clienti che prendono a prestito), effetto inevitabile della politica di bassi tassi di interesse, ha un impatto più forte sulle banche più piccole. Le banche più grandi sono meno toccate, perché tra l’altro il loro segmento di attività presenta un minore livello di concorrenza ed esse praticano di meno i tassi variabili; inoltre esse non si limitano all’attività di banca di dettaglio, ma hanno sviluppato le attività di mercato e di investment banking, settore poco toccato dal ribasso dei tassi di interesse (Couppey-Soubeyran, 2019). Ma anche nelle attività di dettaglio, poi, i grandi istituti possono contare di più, rispetto a quelli piccoli, sugli incassi da commissioni, oltre che su quelli da interessi.   

Basilea e i livelli di capitale

La crisi del 2008 aveva rivelato, tra le altre cose, il persino scandalosamente basso livello dei mezzi propri delle banche rispetto al totale dei loro attivi. Negli ultimi anni diversi studiosi hanno mostrato come i livelli di capitale dovrebbero essere aumentati di molte volte. 

Gli organismi di supervisione delle banche, a partire dal comitato di Basilea, hanno nel tempo spinto in tale direzione, ma in maniera ridotta rispetto a quello che secondo molti sarebbe necessario. Ma è stato anche indicato da qualcuno (Reichlin, 2018) come la politica della BCE, con l’agevolazione dei prestiti agli istituti, abbia contribuito a ritardare la loro necessaria ricapitalizzazione e la pulizia dei loro bilanci, come invece sono state presto obbligate a fare le banche Usa. 

Comunque, secondo le regole più recenti, la cosiddetta Basilea 4,  ora le banche europee sarebbero chiamate ad aumentare di circa 135 miliardi di euro i loro mezzi propri tra il 2021 entro il 2027 (Benoit e altri, 2019). Ma gli istituti recalcitrano e sperano che la nuova Commissione europea verrà a più miti consigli.  

Noi speriamo invece che essa si mostri nella sostanza inflessibile sulla sostanza delle azioni.

Per altro verso, è stato mostrato come il quadro di regole di Basilea sia diventato sempre più sofisticato, complesso e quindi aggirabile, avendo tra l’altro lasciato che le banche utilizzassero i loro modelli interni per quanto riguarda la presentazione del totale attivo (Baglioni, 2018).

L’Unione bancaria europea e le dimensioni degli istituti

Quello dell’Unione bancaria europea, che avrebbe dovuto contribuire a rafforzare fortemente il sistema finanziario del continente, è in realtà rimasto un progetto a metà. 

I tre pilastri del sistema erano costituiti dal passaggio della supervisione delle banche dal livello nazionale a quello continentale, dall’assicurazione sui depositi portata sempre a livello europeo e da un meccanismo di risoluzione delle crisi.

Ora, la supervisione si limita alle banche più grandi, l’assicurazione crediti non è mai partita, mentre il meccanismo di risoluzione delle crisi messo in piedi non si può certo dire che sia soddisfacente, come ben si è visto proprio nel caso italiano. 

E’ abbastanza noto che dietro il sostanziale sabotaggio del progetto ci sia la Germania (con qualche contributo dei paesi nordici) con i suoi obiettivi di controllo politico delle proprie banche da una parte, di ostilità “ideologica” verso i paesi del Sud dall’altra.

Ma tale fallimento ha portato con sé una balcanizzazione del quadro finanziario europeo, frenando le possibili alleanze tra gli istituti e mantenendo il sistema di ridotte dimensioni degli stessi.

Le tecnologie

Un aspetto che penalizza di nuovo le banche europee più fortemente di quelle statunitensi e cinesi è la maggiore lentezza e difficoltà a far fronte in maniera adeguata allo sviluppo del fintech, con l’avanzamento delle tecnologie digitali. Le aree di attività in cui le imprese fintech operano sono crescenti e l’intelligenza artificiale in particolare tende a pervadere sempre più il settore. Per effettuare con successo la transizione sono necessarie grandi risorse finanziarie e grandi competenze.

Sono presenti nel settore nuove imprese innovative, ma anche grandi società, cinesi e statunitensi, provenienti dal comparto digitale e che tendono ad invadere il campo. I grandi gruppi del web hanno imparato presto come muoversi nel settore; essi, nel portare avanti le loro strategie, si basano sulle larghe disponibilità finanziarie, sulla notorietà mondiale, sulla rilevante mole di dati di cui essi dispongono e sulla loro abilità nel gestirli. 

In ogni caso, oggi circa il 90% degli investimenti nel settore sono fatti da istituti cinesi o Usa.

I gruppi del fintech lavorano a scalzare le banche dai settori più redditivi del business, lasciando loro quelli meno interessanti, costringendoli quindi potenzialmente, tra l’altro, a ridurre i prezzi e quindi i margini di profitto.

Ora plana sul settore anche la minaccia delle monete elettroniche, dalla Libra in poi.  

Le banche italiane

Gli istituti italiani soffrono sostanzialmente di tutti i mali di quelle europee, dal ritardo tecnologico, ai bassi livelli di redditività (tra i più ridotti del continente), agli insufficienti livelli di capitale, alla difficoltà occupazionali; in più, soffrono di diversi mali specifici. 

Essi vanno dalla questione dei npl, alla particolare depressione dell’economia nazionale e alle incertezze politiche del paese, all’arretratezza organizzativa degli istituti, al tradizionale e parallelo scarso collegamento con la realtà e le necessità delle imprese, in particolare di quelle piccole e medie, difetto solo parzialmente ridotto in particolare in alcuni istituti.

Va peraltro considerato  che, se il volume dei npl è stato fortemente ridimensionato nell’ultimo periodo, esso rimane ancora elevato e le regole europee impongono di eliminarli totalmente entro il 2026. 

Inoltre i mercati finanziari giudicano negativamente l’esposizione al debito sovrano degli istituti attraverso la detenzione in bilancio di un rilevante volume di titoli pubblici nazionali, mentre periodicamente i paesi del Nord Europa premono per penalizzare in qualche modo tale situazione.

Va peraltro ricordato che è stata in qualche modo sostanzialmente superata la crisi di un certo numero di istituti medi e grandi che per alcuni anni ha contribuito ad oscurare fortemente il quadro del sistema bancario nazionale.

Conclusioni

Il sistema bancario europeo si trova certamente in una situazione difficile per ragioni alcune delle quali sono comuni al settore in tutto il mondo  occidentale, altre invece specifiche al nostro continente.

Ricordiamo il forte e progressivo sviluppo delle tecnologie numeriche e del fintech, con l’ingresso di nuovi protagonisti che minacciano il business e con le banche europee che sembrano quelle messe meno bene per fronteggiare tali sviluppi; del resto sono anche altri i settori investiti progressivamente e inesorabilmente dallo sviluppo delle nuove tecnologie, dalla grande distribuzione al settore dell’auto, con soprattutto l’Europa che si ritrova ad essere sofferente di fronte all’incalzare in prospettiva dei protagonisti Usa e cinesi. 

Questa sembra anche la minaccia più seria nel lungo periodo, ma non la sola. Pesa anche la sostanziale stagnazione dell’economia dell’area euro, sia pure con risultati differenziati da un paese all’altro. D’altro canto va registrata  la mancanza di un vero mercato finanziario europeo, con le banche che lavorano su base prevalentemente nazionale. 

Peraltro i gruppi dirigenti del nostro continente sembrano trovarsi piuttosto disorientati di fronte alla minacce incombenti.

Testi citati nell’articolo

-Baglioni A., La rete bucata. Le regole e i controlli sulla finanza, Mondadori, Milano, 2018

-Benoit G. e altri, Les dix questions qui agitent la finance européenne, Les Echos, 11 settembre 2019

-Chocron V., Nouvelle vague de restructurations bancaires, Le Monde, 22-23 settembre 2019

-Couppey-Soubeyran J., L’emploi bancaire sacrifié sur l’autel de l’actionnariat, Le Monde, 29-30 settembre 2019

-Graziani A., Banche, ai grandi gruppi Usa il 40% del mercato europeo, Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2019

-Morris S. ed altri, European banks fear no escape from negative rates, www.ft.com, 18 settembre 2019

-Reichlin L., la BCE face à sept années de crise de la zone euro, Le Monde, 30 novembre 2018 

-The editorial board,  Us, not European, banks more esposed to a slump, www.ft.com, 25 agosto 2019