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La strada smarrita di scuola, università e ricerca

La rotta d’Italia. L’istruzione, l’università e la ricerca hanno subìto i tagli peggiori negli ultimi governi. Ma il problema è anche nel loro funzionamento, nei meccanismi di potere, nei rapporti con le esigenze del paese

La spesa per l’istruzione, l’università e la ricerca è la Cenerentola della spesa pubblica italiana. I bassi livelli di spesa sono tra i problemi più gravi dell’economia e della società italiana, il nostro ritardo rispetto ai paesi più avanzati non fa che aumentare e ormai siamo sorpassati anche dalla spesa di alcuni paesi emergenti. Da anni si chiedono maggiori spese, ma i vari governi non hanno fatto nulla per migliorare la situazione: la realtà è stata quella di continui, drastici tagli e di ristrutturazioni senza senso.

Gli ultimi anni dei governi Berlusconi-Tremonti sono stati molto indicativi. Si è cercato di demolire la scuola primaria, giudicata tra le migliori, se non la migliore, del mondo. Si sono drasticamente ridotti il numero dei docenti e gli stanziamenti anche per quella secondaria. Le circolari del Ministro Gelmini hanno contribuito a devastare un sistema universitario già traballante, mirando tra l’altro a tagliare gli stanziamenti, a privatizzare quello che resta, a concentrare ancora di più il potere in poche mani. Sul fronte della ricerca, sia di quella pubblica sia per quella privata, le cose hanno continuato a peggiorare. Con il governo Monti, e con il suo terribile Ministro Profumo, le cose non sono migliorate in alcun modo.

Nella campagna elettorale la necessità di migliorare gli stanziamenti per l’istruzione e la ricerca è blandamente ripresa da vari partiti ed esponenti politici; si può ragionevolmente pensare che, in caso di una vittoria alle elezioni della coalizione di centro-sinistra, si farà qualcosa per migliorare la situazione. Ma il problema non è solo nella quantità di risorse. Ci sono molte cose da migliorare nell’organizzazione interna, in particolare nel settore della ricerca pubblica e in quello universitario.

Partiamo dai numeri. Il settore pubblico oggi impiega nel nostro paese all’incirca 3.500.000 addetti. Si pensa spesso che gli impiegati pubblici siano troppi, e che l’efficacia e l’efficienza delle loro prestazioni lasci molto a desiderare. In realtà, a parità di popolazione, paesi come la Francia e la Gran Bretagna occupano molti più addetti nel settore pubblico – tra un milione e un milione e mezzo almeno in più – rispetto a quelli del nostro paese, mentre la qualità della loro azione viene in generale giudicata superiore o nettamente superiore a quella rilevabile da noi. In effetti la nostra pubblica amministrazione, se escludiamo alcuni comparti e, su certi fronti, alcune aree geografiche, offre prestazioni largamente insoddisfacenti. Così, negli interventi su scuola, università e ricerca, non si tratterebbe di cercare economie di personale, ma di ottenere che l’organizzazione lavori meglio. Probabilmente, per ottenere un livello di servizi adeguati alle necessità del paese, il numero degli addetti pubblici dovrebbe aumentare.

Come si pone la questione nell’istruzione e nella ricerca? Qui appare preponderante la necessità di migliorare grandemente i risultati del sistema. Ma per fare questo, al di là degli stanziamenti necessari, si tratta di cambiare in misura rilevante il modo in cui i due comparti funzionano. Al di là delle dissennatezze delle riforme politiche di turno – Gelmini e Profumo insegnano – in questi comparti siamo in presenza di strutture di potere di tipo burocratico-autoritario, largamente autoreferenziali, molto spesso poco o per nulla interessate alle necessità del paese e poco consce delle stesse. In altre parole, le colpe dei governi ci sono tutte, ma spesso si sottolineano poco quelle interne all’istituzione.

Vediamo, ad esempio, l’istruzione universitaria. I dati recenti hanno fatto discutere. In dieci anni le immatricolazioni nelle università sono scese da 338 mila a 280 mila, con un calo del 17%; ci sono 58 mila studenti in meno rispetto al 2003, mentre il numero dei docenti è diminuito del 22% negli ultimi sei anni.

Sono questi gli anni della riforma che ha portato alla messa in campo di due livelli di diplomi di laurea, il noto 3+2. Non si vuole qui entrare nel merito della bontà in sé di tale riforma, su cui molti hanno, più o meno giustamente, avanzato dei dubbi. Il problema che vogliamo sottolineare è quello di come tale riforma sia stata portata avanti. Il sistema di potere all’interno delle strutture universitarie è governato molto spesso da una ristretta élite di docenti “anziani”, la cui concezione della cosa pubblica è spesso centrata sui propri interessi immediati. Così l’introduzione a suo tempo della riforma 3+2, accompagnata da una più larga autonomia concessa ai vari atenei, ha portato da parte di molte università a introdurre i corsi di laurea più fantasiosi, riempiendo i piani di studio di materie di esclusivo interesse di tali docenti, a volte con una moltiplicazione di “microesami” che hanno complicato il percorso degli studenti. Analoga è stata la moltiplicazione di sedi universitarie “decentrate”, prive di strutture e presenze adeguate per offrire una vera formazione universitaria.

Certo, la situazione andrebbe differenziata, tra facoltà scientifiche e umanistiche, tra Nord e Sud, e anche tra caso e caso, ma in media la situazione resta pessima. I più recenti interventi del Ministero, hanno tagliato le risorse, impedito il rinnovo del turnover del personale e imposto vincoli “meccanici” in termini di numero di docenti per corso di laurea, che hanno provocato un forte ridimensionamento delle attività universitarie. Caduta dell’offerta didattica e crollo degli studenti sono andati in parallelo con risultati internazionali che vedono le università italiane in posizioni da retrocessione nelle varie classifiche internazionali.

Nelle “riforme” dei governi Berlusconi, la critica all’autoreferenzialità del potere universitario ha preso la forma di un’apertura al “privato”, di una gestione dell’università come un’”azienda” aprendo le porte dei consigli di amministrazione a esponenti delle imprese. Il risultato – nella formazione universitaria come nella ricerca – è un asservimento crescente agli interessi delle grandi e meno grandi imprese, o di finanziatori esterni, problema ben noto del sistema universitario di altri paesi. Tale asservimento cammina per molte vie, dalla necessità di trovare fonti alternative di finanziamento rispetto ai tagli pubblici, all’interesse personale dei ricercatori, dall’influenza del business privato in molte riviste scientifiche, al clima ideologico generale presente nella società. Succede così che i posti di ricercatore, peraltro ormai a tempo determinato, debbano essere sempre più finanziati dall’esterno. Quello che non interessa ai poteri esterni, ad esempio la filologia romanza o l’antropologia culturale, è destinato a essere abbandonato, indipendemtemente dalla qualità della ricerca che viene prodotta.

È una deriva che viene da lontano, dalla sottoscrizione da parte dei ministri dell’istruzione e dei rappresentanti dell’accademia, nel 1999, della famigerata Carta di Bologna, che puntava dichiaratamente a indirizzare la conoscenza e l’istruzione secondo i criteri del profitto e dell’aderenza alle necessità del mercato.

Per l’istruzione e la ricerca si è davvero smarrita la direzione di marcia, serve ripensare il senso stesso dello sforzo, verso quali obiettivi e quali politiche indirizzare tali strutture. Si tratta di una responsabilità che la politica dovrebbe assumersi, con un drastico “cambiamento di rotta” rispetto al passato. Un ripensamento del ruolo del sapere nella società, un allontamentento dalle logiche di mercato, una democratizzazione dei poteri nel mondo universitario, una visione dell’università come comunità di docenti e studenti radicata nella società. Un sistema che serva al paese e venga finanziato molto più che in passato.