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La Marcia

Il difficile voto di metà mandato ha costretto il presidente americano a difendere il proprio fortino assediato, nel modo che sa, con le armi che conosce; così ha utilizzato i fatti del giorno. La politica estera non lo appassiona, a parte qualche angheria all’Iran. Ma ha incontrato la Marcia: un popolo senza lavoro, senza beni, […]

In un bell’articolo comparso venerdì 2 novembre sul “corrierone” Aldo Cazzullo descrive tre schemi dello spettacolo trumpista: Trump, come dice la sua gente, è un poveraccio come noi, anche se lui ha i soldi; inoltre è un grande campione di wrestling che tratta uomini e donne buttando tutti/e per terra; infine fa di ogni giorno, di ogni occasione della vita attiva, politica o sociale o di altro genere che sia, uno spettacolo per il pubblico, che sia vendibile, che migliori il punteggio complessivo di Donald e rimanga impresso nel ricordo di tutti.

Sull’ultimo punto c’è addirittura un trattato, il gran libro di Naomi Klein Shock Politics che spiega in modo feroce i modi del presidente Usa, nano e ballerina nonché uomo forzuto sempre, tutto in una volta; sul primo aspetto, quello che descrive i seguaci di Trump, abbiamo letto tanto tempo fa un reportage di Dave Eggers da Sacramento, California, sulla campagna elettorale che lo avrebbe portato alla Casa Bianca (“L’America vista da un comizio di Trump”, Internazionale, 15 luglio 2016 e prima su The Guardian, 15 giugno 2016); sul punto centrale, è Trump stesso che esalta le sue lotte sul ring, per sopraffare e umiliare gli avversari, scommettendo con loro, assalendoli a tradimento e poi mettendo in circolazione il filmato. Insomma: perenne spettacolo, perenne campagna di propaganda, perenne rissa. Di tale aspetto si è scritto perfino su sbilanciamoci.info (“Il wrestling di Donald“, 4 luglio 2017)

Il difficile voto di metà mandato ha costretto il presidente americano a difendere il proprio fortino assediato, nel modo che sa, con le armi che conosce; così ha utilizzato i fatti del giorno. La politica estera non lo appassiona, anche se qualche angheria all’Iran può sempre fruttare contumelie di risposta e le minacce valgano repliche su repliche, interventi di terzi cui piace mettere bocca, infine fonti minori, spesso pure frottole, che rincarano la dose e alzano la tensione facendo volare insulti contro insulti: ma è pur sempre lo spazio ridotto di un telegiornale, di un video; non è poi da Trump, così convinto della propria superiorità nei confronti degli intellettuali – e un religioso, oltre tutto mussulmano, come Hassan Rouhani, certamente lo è – fare un lungo corpo-a-corpo lotta con l’Ayatollah; c’è piuttosto il suo nuovo amico di Pyongyang, che però, qualsiasi cosa dica, tanto più che sta smantellando la bomba, ha perduto di interesse per Minnesota e Alabama e tutti gli altri Stati e porta in dote poca attenzione e pochissimi voti.

Infine ci sarebbe l’ambiente, inteso come clima impazzito, alluvioni da Diluvio Universale dopo gli incendi estivi; ma caldo e freddo, acqua in eccesso e desertificazione incombente nelle svariate Californie valgono solo poche battute da avanspettacolo, il tempo di dire: “così voi che vi preoccupavate per il troppo caldo (o a seconda dei casi “per il freddo”) causati da ozono o effetto serra, adesso sarete contenti”) e il giudizio del presidente, grande esperto di intrattenimento, sarà riassunto in una serie di applauditissimi tweet. Occorre però qualcosa di più, che tenga desta l’attenzione (e sposti i voti dei rappresentanti in qualche stato in bilico) almeno per un lunghissimo tempo elettorale, addirittura una settimana, quella che manca al fatidico 11/6 (sei novembre, diremmo noi). Ecco allora la Marcia.

La marcia è in corso da parte di centinaia e poi migliaia di persone dell’America centrale; un popolo senza lavoro, senza beni, senza soldi e senza cibo, senza capi né percorsi stabiliti. Senza un domani, in patria. Sono cosiddetti migranti, uomini, donne, bambini in cammino verso il Nord del confine “americano” che si prevede raggiungeranno chissà quando (tra una decina di giorni, un mese, un anno…). Il presidente americano non guarda a questi aspetti; egli insiste con i suoi concittadini sulla necessità di respingere l’invasione; ma non solo quella della Marcia in corso contro la quale ha stabilito di mandare cinquemila o forse quindicimila soldati alla frontiera con il Messico; egli è in generale contro il birthright che corrisponde grosso modo allo jus soli – quello che da noi si applicava già ai tempi di Caracalla e ora non piace più.

Il presidente, sicuro della malizia donnesca di infilarsi in Usa per partorire (anche una delle sue mogli, europea di natali, ha avuto maliziosamente un figlio Trump in Usa) ha fatto sapere di voler interrompere con un ordine esecutivo questo imbroglio. Un coro di esperti esasperati gli ha fatto sapere che il presidente non può abolire un emendamento della Costituzione; in questo caso il XIV. Naturalmente si è sviluppata una discussione formidabile in Usa e hanno cominciato a girare numeri fantastici su milioni e milioni di lattanti falsi e bugiardi. Trump afferma di poter ottenere il risultato con un ordine esecutivo, afferma inoltre che l’America – come lui chiama il suo Paese – è l’unica nazione con il birthright e tutti gli fanno notare che non è vero. Anche le altre nazioni americane – e non solo esse – hanno più o meno la stessa legislazione. D’altro canto uno dei primi ordini esecutivi di Trump, entrato in carica da poche ore, è stato quello con il numero 13.769: in teoria un’affermazione roboante di voler difendere il Paese dal terrorismo estero e musulmano, ma in pratica la decisione di tagliare ai minimi termini l’arrivo di migranti.

Dall’Honduras di partenza hanno attraversato, in decine di rivoli, tornando insieme nella pericolosissima – stando alle classifiche internazionali che la indicano come il peggio del peggio a livello mondiale – città di San Pedro Sula, dividendosi ancora verso la frontiera con il Guatemala, nell’attraversare passi di montagna o fiumi in piena, per fare tappa in città non sempre benevole con sempre nuova povera gente di passaggio. Poi il Messico. Un paese lungo centinaia e migliaia di chilometri, abitato da persone ospitali e altre più restie, in decine e centinaia di paesi accoglienti. In Europa le notizie sulla marcia sono molto sporadiche e spesso imprecise. Pochi notano che La Marcia ha inizio il 12 ottobre, giorno fatidico della scoperta dell’America, 500 – e passa – anni fa o almeno questo sembra il senso di aver scelto quel giorno. “L’America siamo noi” gridano a piena voce. E ancora: “L’America agli americani”, con un senso diverso da quello immaginato ai suoi tempi da Monroe.

Le carovane. Le carovane in marcia sono quattro, forse cinque, ma è difficile un calcolo preciso. Si formano e a volte subentra la disillusione e allora centinaia di persone scelgono di tornare nell’altro senso, attraversando il Messico e il Guatemala. In generale è una marcia difficile verso la frontiera, verso Nord invece dell’Ovest di decine di film. Tutte le carovane raccolgono famiglie, persone isolate, compagnie di amici e paesani, gruppi di artisti e bande di suonatori e poi un seguito di attivisti e di curiosi, che hanno scelto il compito di accompagnare il viaggio e di raccontare, ciascuno a suo modo, con foto, filmati, interviste, gli avvenimenti, il fatto della Marcia.

Molti migranti, dal Guatemala transitano nel Chiapas, oltre il confine. In Chiapas venti anni fa c’era stata una piccola migrazione italiana, alla ricerca di una democrazia perduta, di una società accogliente. Tra i tanti, vi era stato più volte, ai tempi di Ya Basta e del movimento zapatista, MG un compagno, un medico che se ne è andato anni fa e in molti ricordiamo. Tornava in Italia, allora e leggeva con passione e nostalgia e dolore La Jornada, quotidiano messicano. Abbiamo preso La Jornada (5 novembre 2018, online) e ne abbiamo ricavate alcune notizie/informazioni. Il concentramento, la raccolta, diremo meglio, del popolo migrante è a Città del Messico, in uno dei prossimi giorni. Gli spezzoni principali sono tre; in tutto novemila persone: uomini, donne e bambini, già nati alcuni e solo progettati per la maggior parte, tanto per contraddire l’ordine esecutivo di Donald Trump ben convinto delle sue buone ragioni: avere di fronte solo madri imbroglione e altra gentaglia che le copre.

La Marcia del primo spezzone prosegue dopo l’incontro nella Capitale messicana. I primi sono già arrivati: a Città del Messico. Son 17 persone, undici adulti e sei bambini. Hanno trovato rifugio per la notte tra sabato e domenica alla Ciudad Deportiva de Magdalena Mixhuca. Le autorità messicane sono in imbarazzo tra i due presidenti. Quello uscente può fare bella figura (quale che sia la bella figura per lui) il nuovo sarebbe favorevole ai migranti ma teme il prepotente vicino e non vorrebbe crearsi fastidi prima ancora di cominciare.

Due i percorsi possibili: verso il Texas, lungo una strada difficile di 1.000 chilometri, molto disturbati per la presenza di banditi e dei loro assalti ai viaggiatori (migranti) disarmati: oppure un’alternativa di 2.800 chilometri, sicuri, verso il confine di Tijuana con la California di San Diego. La capitale è un po’ frastornata. Il primo dicembre entra in carica il nuovo presidente Andres Manes Lopez Obrador. Il presidente uscente Peña Nieto, secondo Le Monde di domenica lunedì, “tenta in una volta sola di non irritare Trump e di evitare una crisi umanitaria”

“Non si può arrivare alla capitale in ordine sparso”, avverte Gina Garibo che è alla guida – o cammina a fianco – di uno spezzone di quattro o cinquemila persone in marcia: “Dobbiamo essere uniti e marciare insieme”. La riunificazione potrebbe avvenire a Puebla che dista 150 chilometri da Città del Messico. Poi Tutti in Marcia.