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Il banco è saltato, ma il casinò resta aperto

È in libreria il volume “Per qualche dollaro in più – Come la finanza casinò si sta giocando il pianeta”. Ne diamo un assaggio, su bolle finanziarie e teoria dei mercati efficienti

Uno dei pilastri su cui poggia la dottrina neoliberista è la teoria dei mercati efficienti: il libero mercato è in grado di garantire l’allocazione ottimale delle risorse, e del capitale in particolare. Per questo lo stato deve farsi da parte. Qualunque normativa o intervento pubblico distorce e limita l’efficienza dei mercati. Questa idea riposa a sua volta sulla fondamentale legge della domanda e dell’offerta. Se un dato bene o servizio è più richiesto aumenta la domanda e di conseguenza sale il prezzo, il che tende a fare calare la domanda. Analogamente, se si verifica un eccesso di offerta di un dato prodotto il prezzo tende a scendere e diventerà meno conveniente continuare ad aumentare l’offerta. Il libero mercato permetterebbe di raggiungere in ogni momento l’equilibrio.

Questa teoria, che ha guidato per oltre trent’anni le decisioni politiche ed economiche, si è rivelata clamorosamente sbagliata per il mercato più importante e centrale dell’intero sistema: quello finanziario. L’aumento del prezzo di un titolo sui mercati lo rende più appetibile. La stragrande maggioranza degli investitori non acquista un’azione fondandosi sull’analisi dei dati economici dell’impresa, ma guardando il valore e l’andamento della stessa azione in borsa. I mercati per loro stessa natura seguono comportamenti che si auto-amplificano e previsioni che si auto-realizzano. L’aumento della domanda di un titolo porta all’aumento del suo prezzo, ma questo, in maniera diametralmente opposta a quanto previsto dalla teoria economica, provoca un’ulteriore aumento della domanda. Tecnicamente, sui mercati finanziari la domanda è una funzione crescente del prezzo.

In altre parole i mercati finanziari sono autoreferenziali. I prezzi non vengono determinati dai fondamentali economici ma dal comportamento della massa degli investitori, ovvero del mercato stesso. Il comportamento razionale del singolo investitore non è quello di vedere se un’azienda è in salute prima di comprare un’azione, ma quello di capire come si comporteranno gli altri investitori. E’ famosa la metafora utilizzata da Keynes per descrivere come opera la speculazione: per sapere chi vincerà un concorso di bellezza la nostra opinione personale conta poco, è necessario invece capire come voterà la maggioranza dei giurati.

Questo è vero addirittura se il singolo investitore ha informazioni migliori del mercato ed è consapevole che esiste una bolla finanziaria. Fino al momento prima dello scoppio della bolla, il comportamento razionale consiste nel comprare i titoli, anche se il prezzo è sopravvalutato.

È così che nascono, si gonfiano e scoppiano le bolle speculative. La mancanza di trasparenza e gli eccessi di prodotti quali le CDO o i CDS sono solo ulteriori elementi di gravità della crisi dei subprime. Durante la bolla precedente, quella della new economy esplosa nel 2001, non c’era una mancanza di trasparenza o prodotti strutturati e incomprensibili. Tutte le informazioni sulle imprese tecnologiche e informatiche, le famigerate dot com, erano disponibili al mercato. Tutti sapevano che i prezzi stavano salendo a dismisura, ma nessun gestore di fondo pensione o di investimento si sarebbe potuto sognare di dire ai propri aderenti che si rifiutava di acquistare titoli tecnologici finché le azioni crescevano del 30 o 40% l’anno.

Non si tratta di distorsioni, è la stessa natura dei mercati finanziari. In questo senso la crisi finanziaria è endogena, ovvero non dovuta a fattori esterni. È stato così per la bolla dei tulipani all’inizio del XVII secolo e nulla è cambiato nei quattrocento anni successivi, fino a quella della new economy del 2001 e a quella del settore immobiliare del 2007. Come segnala l’economista André Orléan, “la crisi non è dovuta al fatto che le regole del gioco finanziario sono state aggirate ma al fatto che sono state seguite”.

L’unica differenza rispetto al passato è che le bolle e le relative crisi sono sempre più ravvicinate nel tempo e sempre più ampie in dimensione. Una situazione dovuta in massima parte al fatto che oggi anche i piccoli risparmiatori partecipano al gioco tramite i fondi pensione e di investimento, e che la finanza è diventata sempre più centrale nell’economia. In altre parole, sui mercati ci sono sempre più investitori e sempre più liquidità. Una possibilità legata alla finanziarizzazione dell’insieme delle attività umane.

Non sono quindi unicamente gli investitori “tradizionali” ad aspettarsi un aumento del valore delle azioni. Una parte sempre più sostanziale del compenso degli alti dirigenti delle imprese non è lo stipendio fisso ma i bonus pagati sotto forma di titoli dell’impresa stessa. In questo modo si crea un meccanismo perverso di allineamento degli obiettivi dei dirigenti e di quelli degli azionisti: massimizzazione del valore delle azioni e orizzonti temporali di brevissima durata. E questo non è ancora nulla. Con le riforme del sistema previdenziale gli stessi lavoratori sono stati spinti a investire e a vedere la propria pensione dipendere dall’andamento dei mercati finanziari. Lo stesso può dirsi per la massa dei piccoli risparmiatori.

Le bolle speculative sono inevitabili se tutti gli attori in gioco, dalle banche ai dirigenti delle imprese, dagli azionisti ai risparmiatori fino ai lavoratori si pongono come obiettivo ultimo l’aumento del rendimento dei titoli finanziari, e se chi dovrebbe controllare e sorvegliare è il primo a promuovere la deregolamentazione e il libero mercato.

Le bolle si gonfiano fino al momento in cui un evento in sé limitato porta a un’inversione di tendenza. Parte allora il percorso inverso: ondate di vendita che fanno precipitare il prezzo del prodotto. Chi compra al prezzo più basso e vende a quello più alto è chi si trova in posizione di forza sui mercati finanziari, come le grandi banche d’affari. All’estremo opposto troviamo solitamente i piccoli risparmiatori, che entrano in un mercato quando vedono che i prezzi sono ai massimi, o, peggio ancora, che si ritrovano a investire a loro insaputa in titoli enormemente sopravvalutati, e che rimangono con il cerino in mano quando i prezzi crollano, come è avvenuto per le centinaia di migliaia di italiani che si sono ritrovati nei propri risparmi i “tango bond” argentini o le obbligazioni della Parmalat.

La massa dei risparmiatori si muove in gregge (herding in inglese), seguendo i movimenti dei singoli titoli. Le fasce più deboli della popolazione sono invariabilmente quelle che pur non essendo organiche al grande circo della finanza ne pagano il prezzo maggiore. È una finanza apparentemente democratica, dove chiunque può partecipare, ma dove in realtà solo in pochi riescono a uscire vincitori. Una gigantesca “catena di Sant Antonio”, nella quale il grande pubblico è chiamato inconsapevolmente ad alimentare un sistema del quale è vittima.

Il necessario cambio di rotta richiede allora una spinta coordinata secondo diverse direttrici: la revisione delle regole che sovrintendono i mercati finanziari; un intervento pubblico mirato alla redistribuzione delle ricchezze; una riduzione dei volumi dei mercati finanziari; una de-finanziarizzazione delle attività umane e in ultimo, ma non meno importante, un cambiamento dei nostri stili di vita e dei nostri comportamenti in ambito economico e finanziario.

Andrea Baranes, “Per qualche dollaro in più“. Datanews, 176 pp, 18 euro