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Europa, costruire politiche al posto dei feticci

I falsi miti su debito pubblico e moneta, sui quali la speculazione fa leva. E le condizioni per avviare una politica di sviluppo in Europa: gli strumenti ci sono, manca la politica

intervento precedente

III parte. I feticci, popolari e non, su debito pubblico e moneta

Ho detto, in precedenti articoli, che gli attacchi speculativi non si combattono con l’austerità fiscale ma con una appropriata politica della Bce, che l’austerità è controproducente e ci espone a nuovi attacchi speculativi, che gli eurobonds servono ma per avviare una politica di sviluppo europeo. Per comprendere quest’ultimo punto occorre prima fare un bagno purificatore, smontando le molte false credenze in materia di bilancio, di debito pubblico e di creazione di moneta. Su queste false credenze fanno infatti leva gli attacchi speculativi; questo il tema dell’articolo.

Il problema dei titoli di debito pubblico è oggi forte soprattutto a causa della internazionalizzazione del loro possesso. Al di fuori di casi limite non si tratta di un problema economico. Gli attacchi speculativi sfruttano atteggiamenti antropologico-culturali spontanei e diffusi e atteggiamenti politici basati su cattive analisi, ispirate da cattive ideologie.

Riassumo prima, in pillole, quanto la comunità degli economisti, con qualche rara eccezione, ha pensato e insegnato, riferendosi al debito interno e sotto l’ipotesi che il debito interno non dovesse mai essere restituito, a partire dai tempi di Ricardo fino agli anni ’80, quando le ideologie neoliberali e la logica in base alla quale il metro del mercato valesse come verità universale ha cominciato a prevalere in ogni possibile sede e per qualsiasi tipo di problema:

(1) finché i titoli del debito sono posseduti da persone dello stesso stato che paga gli interessi, il cittadino “medio” di quello stato è detentore dello stesso ammontare di debiti e di crediti. Problemi possono sorgere solo per il fatto che sono diversi i crediti e i debiti dei singoli cittadini e quindi per il modo con il quale sono distribuiti il reddito, la ricchezza e i carichi fiscali. Ciò può indurre forti conflittualità sociali e far emergere difficoltà politiche nel gestire un bilancio reso rigido dal fatto che la pressione fiscale lorda supera quella al netto degli interessi.

(2) Quanto a come si troveranno le generazioni future, considerate in aggregato, la loro condizione non dipenderà dal fatto che i loro genitori abbiano in passato finanziato certe azioni pubbliche con l’emissione di debito ovvero con le imposte. Dipenderà invece e solamente dalla qualità e dall’esito delle stesse azioni pubbliche. Quelle azioni, infatti, avranno potuto solo usare cose e mobilizzare risorse reali esistenti al momento delle azioni (si pensi a una guerra, vinta o persa, ma che comunque non può che usare i mezzi che esistono al momento in cui la guerra è fatta, indipendentemente da come le relative spese sono state finanziate).

(3) Il problema del rapporto debito/Pil riguarda sia il numeratore che il denominatore; quest’ultimo non è indipendente dal primo e ogni sforzo fatto per ridurre il debito agisce deprimendo il secondo; di quanto è da vedere.

Per spiegare meglio tutto ciò si faceva riferimento a titoli detti “irredimibili”, che promettevano cioè una somma fissa perpetua come pagamento di interessi, al contrario di quanto si considera per altri prestiti (si pensi a un mutuo per la casa, che prevede interessi e un piano di restituzione). Un titolo del genere, sempre commerciabile, ha un valore corrente pari al rapporto tra la somma promessa in perpetuo e il tasso di interesse, un valore che aumenta o diminuisce a seconda che il tasso di interesse corrente diminuisca o cresca. Per gli individui la restituzione è sempre possibile, al di fuori di casi estremi, vendendo il titolo; i rischi, normali, dipendono solo dalle variazioni possibili del tasso di interesse successivamente all’emissione. Nel caso di titoli con scadenze esiste il rischio, in linea di massima contenuto e controllabile, che l’emissione di nuovi titoli sostitutivi debba aver luogo a tassi di interesse più elevati, ed è proprio in relazione a ciò che vi sono stati dissensi marginali sul fatto che il debito potesse danneggiare le generazioni future; infatti si è avanzato il dubbio che tali emissioni potessero far diminuire gli investimenti produttivi. Questa possibilità fa sorridere oggi, quando è chiaro che ormai i rischi di “spiazzamento” degli investimenti produttivi sono dovuti semmai a tutte le opzioni di impiego finanziario più redditizie aperte dalla “paper economy”. Questione distributiva a parte, per il sistema nel suo complesso vale sempre il ragionamento che interessi pagati e tasse per pagarli sono passaggi di danaro da una tasca all’altra dello stesso vestito.

Il possesso di titoli del debito pubblico di un paese da parte di soggetti di altri paesi rende più complesso questo quadro, ma non lo altera se non in casi limite. Per semplicità continuo dapprima a riferirmi a titoli irredimibili. Se riguardiamo il problema in termini reali i soggetti stranieri detentori dei titoli hanno diritto a ottenere annualmente merci e servizi di valore pari agli interessi. Si ha cioè un caso molto simile a quello di un paese condannato a pagare debiti di guerra. Se invece lo riguardiamo più in termini monetari e dal punto di vista delle politiche fiscali, il caso ricorda ciò che dovettero fare i paesi importatori di petrolio ai tempi dei primi shock petroliferi. Si trattava di usare la fiscalità per comprimere la domanda interna di merci di quanto era necessario per “fare spazio” alla produzione destinata ad alimentare maggiori esportazioni. Su questa base logica facciamo un po’ di conti.

Supponiamo che i titoli pubblici collocati all’estero di un paese siano pari alla metà del suo Pil (grosso modo il caso italiano) e che il tasso di interesse medio a essi associato sia dell’ordine del 4%. Ciò implica trasferire all’estero senza contropartite in merci il 2% del suo Pil. Qualcuno pensa che un tale onere, per i maggiori paesi europei coinvolti dagli attacchi speculativi, non sia sostenibile al punto di “rischiare fallimento”? Si tratta di oneri dello stesso ordine di grandezza di una qualsiasi recessione e probabilmente più contenuti di quelli imposti dall’austerità fiscale. Spiacevole, certo, ma non insopportabile. Se si parte da queste consapevolezze è difficile spiegare come l’attacco speculativo basato sull’idea di possibili fallimenti dei “debiti sovrani” possa avere avuto successo se non ammettendo che chi scatena gli attacchi speculativi faccia affidamento sulle reazioni sbagliate dei soggetti di policy e sul panico del parco buoi; sbagliate perché, anziché fare affidamento sui ragionamenti sensati e consolidati che ho fin qui richiamato, si basano su luoghi comuni ampiamente diffusi e ingigantiti dai mezzi di comunicazione. Giocando su false credenze ampiamente condivise e autorevolmente sostenute che generano determinate aspettative capita infatti di poter innescare dei veri e propri giochi che autorealizzano le aspettative, anche se esse sono fondate su false premesse.

Così la “vox” che singoli paesi europei potessero “fallire” ha condotto dapprima a un aumento degli interessi richiesti sui rinnovi dei titoli in scadenza, inducendo di per sé rischi di insolvenza (pura insania: è come se un creditore provocasse l’insolvenza del debitore). Successivamente, forse intuendo tale insania, si è passati a condizionare inutili salvataggi ad azioni estreme di austerità fiscale. Ma anche queste politiche sono controproducenti. Esse infatti faranno presumibilmente diminuire il Pil e il gettito fiscale a meno di aumenti della pressione fiscale specifica, ma tali aumenti fanno diminuire fiducia a incentivi a investire, ecc., sicché il risultato ultimo potrebbe essere addirittura un aumento del rapporto debito/Pil e questo, insieme agli indicatori di recessione, indurrebbe nuovi attacchi speculativi. Come ho spiegato in un precedente articolo l’unica via era quella di stroncare subito gli attacchi speculativi facendo comportare la Bce come prestatore di ultima istanza (in questo senso si è pronunciato anche Stefano Micossi, “Eurozone crisis: are we losing the patient?”, del 18 agosto, www.voxeu.org).

Questa via è stata finora esclusa nella convinzione che essa, implicando creazione di moneta, avrebbe inevitabilmente alimentato inflazione. E anche qui si tratta di false credenze ampiamente diffuse – come quelle sui mali del debito pubblico – sulle quali fanno affidamento gli speculatori professionali (tanto è vero che essi hanno “preso un bagno”, secondo quanto riferisce Krugman nel Cap.6 del suo best seller The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008, quando la speculazione nel 1998 attaccò Hong Kong e le sue autorità monetarie, inaspettatamente e superando i luoghi comuni, usarono ogni mezzo per fronteggiare le vendite speculative). E anche questo feticcio è da smontare, con il ragionamento e con l’esperienza.

Se è vero che l’inflazione, intesa come un continuo aumento dei prezzi dei flussi di produzione annua, presuppone una creazione eccessiva di moneta, non è necessariamente vero il contrario. Cosa succede dipende dalle destinazioni della moneta e dalle circostanze ambientali in cui viene creata, esattamente come gli effetti del debito pubblico dipendono dalle azioni specifiche che con il debito vengono finanziate. E nel caso della creazione di moneta sono i fatti a parlare prima ancora dei ragionamenti. Ho già ricordato come nel 2008 la Bce non ha esitato a creare moneta per evitare una crisi a catena delle banche, senza che da ciò sia derivata inflazione. C’è di più. Per tutto il primo decennio degli anni Duemila la Bce ha fatto crescere la disponibilità di moneta (M3) in misura maggiore della somma tra tasso di sviluppo e tasso di inflazione – un comportamento che violava i suoi stessi target ufficiali e che avrebbe dovuto di per sé far aumentare l’inflazione. Ed invece l’inflazione è rimasta stabile e l’esagerata creazione di moneta ha alimentato la paper economy, in particolare la bolla speculativa che ha riguardato gli stock di ricchezza, senza benefici per la produzione reale. Oggi le banche sono gonfie di danaro ma il credito alle attività produttive langue. Siamo dunque in presenza di fenomeni molto più complessi di quelli suggeriti dal luogo comune che lega moneta e inflazione.

Le questioni riguardanti il debito pubblico sono sottilmente intrecciate con quelle che hanno a che fare con la creazione di moneta, mentre a loro volta debito e moneta hanno a che fare con le vicende della parte reale delle economie – produzione, consumi, prezzi- e, anche per il tramite delle banche e della finanza, con la quantità, la tipologia e la qualità degli investimenti reali, nonché con gli impieghi dei risparmi monetari in assetti di ricchezza e con i valori di questi. Proverò a spiegare come e perché.

IV parte. Le condizioni per avviare un processo di sviluppo europeo

Ho posto in evidenza fatti che falsificano il luogo comune che la creazione di moneta induca necessariamente inflazione nei prezzi dei flussi di beni e servizi. Dipende dalle circostanze, dai modi, dai fini. Occorre allora di volta in volta ragionare. Vorrei soffermarmi su tre temi: (a) le connessioni tra deficit, moneta e inflazione, (b) quelle tra espansione e avvio di un nuovo processo di sviluppo e (c) le difficoltà per l’Europa – tutte politiche – di avviare tale processo.

(a) La “verità ufficiale” è che la moneta sia immessa nell’economia dalla banca centrale comprando titoli (per lo più) pubblici; il pagamento in moneta di questi indurrebbe una maggiore circolazione di moneta nell’economia. Tuttavia, non appena ci si ponga in una prospettiva storica di più lungo periodo, appare chiaro che la vendita di titoli pubblici presuppone che questi siano stati emessi in qualche passato e, in quel passato, debbono aver tolto moneta dalla circolazione. Quindi, ferma restando la capacità di tali operazioni di controllare il tasso di interesse, è evidente che devono esservi ulteriori meccanismi di creazione di moneta. Uno di questi è costituito dal sistema bancario, che la crea su basi fiduciarie. Un altro è la stampa di moneta per finanziare la domanda pubblica quando questa eccede le entrate, senza vendita di titoli al pubblico (deficit direttamente monetizzato). I teorici del circuito monetario (mi limito a citare Augusto Graziani e Marcello Messori) hanno evidenziato l’insufficienza della creazione di moneta attraverso il credito. Di conseguenza un qualche grado di deficit monetizzato deve esserci, quanto meno nel lungo periodo.

Fino ai primi anni ’80 il deficit monetizzato dava luogo ad una partita di giro tra stato e banca centrale (indipendentemente dagli aspetti formali). Dopo i “divorzi” lo stato doveva comunque emettere titoli, gonfiando probabilmente l’entità del debito visibile e lasciando alla banca centrale il potere di decidere l’entità della sottoscrizione diretta. Successivamente in Europa, fin da prima dell’istituzione dell’euro, si è stabilito il divieto per le banche centrali di sottoscrivere in via diretta i titoli emessi; un divieto consolidato con l’attuale art. 101 del Trattato. È l’art.101 che è dunque divenuto oggi, politicamente, l’elemento di discriminazione tra chi, con De Grawui, Gros, Micossi (e probabilmente tanti altri me compreso) sostiene che la Bce debba fungere da prestatore di ultima istanza anche per i governi al fine di stroncare gli attacchi speculativi, e i vari Merkel, Sarkozy, Fmi, Finlandia, ecc., che, per sviamento ideologico e prima ancora per effetto di una seria abdicazione culturale, vedono solo la strada dell’austerità fiscale. Si tratta di una profonda distorsione, che ha esasperato i rischi di attacchi speculativi. La Bce infatti in questi anni ha prestato moneta alle banche a tassi di interesse esigui e ha fatto sottoscrivere da esse i titoli dei debiti nazionali, con il risultato che esse si sono gonfiate di titoli senza alcuna attenzione ai rischi.

(b) Solo la moneta che è o si trasforma in domanda di beni è potenzialmente in grado di stimolare la produzione e al contempo di assorbirla. Ciò fa di una maggiore domanda e delle aspettative di maggiore domanda futura la condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per espandere la produzione in presenza di disoccupazione e capacità produttiva eccedente. Queste cose non corrispondono solo all’essenza del pensiero keynesiano, ma sono ben radicate nella consapevolezza di chiunque si dedichi ad attività produttive. Non si tratta ancora di sviluppo – che è una tendenza di produzione e domanda a crescere nel tempo – ma è già qualcosa e comunque costituisce una premessa (ancorché non sufficiente) perché si avvii un processo di sviluppo. Si fa allora fatica a comprendere come si possa avviare lo sviluppo a partire dall’austerità, a meno di non dare credito alla capacità delle “riforme strutturali” indicate dai vari soloni delle tecnocrazie internazionali (a partire dall’Fmi): flessibilità dei salari e del lavoro, privatizzazioni, equilibrio pensionistico, riduzione della spesa pubblica in campo sanitario e sociale, ecc. Ma la catena causale per cui tali riforme sarebbero in grado di avviare sviluppo non è mai compiutamente esplicitata, lasciando solo intravvedere (e nulla più) che da tutto ciò deriverebbero guadagni di competitività, dai quali poi (chissà quando e chissà come) deriverebbe lo sviluppo.

Un tale atteggiamento cancella, con u sol colpo, secoli di storia, migliaia di pagine di buona ricerca economica, le consapevolezza di centinaia di milioni di produttori e commercianti. Abba Lerner, l’insuperato interprete delle implicazioni di policy del pensiero di Keynes, considerava debito e moneta, “cose” dello stato e suoi strumenti; “cose” in quanto legate alla sovranità dello stato e non cedibili, “strumenti” perché non dovevano essere gestiti secondo principi astratti (come ad esempio il pareggio di bilancio), ma funzionalmente agli obbiettivi pubblici, allo stato contingente delle economie e soprattutto alla luce del principio che attivare risorse inutilizzate per produrre più beni e servizi è qualcosa che non impone costi reali sulla collettività, perché si produce di più senza rinunciare a niente. Se la sfera politica non riesce a capire questo principio – che è il cardine della logica moderna dell’ottimizzazione – vuol dire che i politici si ispirano ancora a canoni metafisici; se lo capiscono ma non riescono a praticarlo è segno che hanno perso il controllo del sistema che gli elettori hanno loro attribuito come compito e/o che hanno consentito che l’organizzazione del sistema sia divenuta incontrollabile.

Predicare una ripresa delle idee di Keynes-Lerner è opportuno – visto che siamo in recessione – ma non sufficiente, come invece ritiene la maggior parte dei commentatori di sinistra. Quelle chiavi di lettura, infatti, non affrontano i problemi di ripresa dello sviluppo. Ciò va detto con chiarezza.

(3) Rossanda si è chiesta se fondare l’Europa cominciando dalla moneta unica sperando che il resto avrebbe seguito non sia stata una fondamentale miopia. Pianta ha ricostruito nel dettaglio ciò che è accaduto, concludendo con cinque condivisibili proposte. Le questioni da essi evocate mi ricordano un articolo che ho scritto quasi vent’anni fa (il cui titolo era, non a caso, “The dangers of EMU”). “L’unione monetaria per farci che?” – mi domandavo – visto che non si parlava né di un bilancio federale né di un centro di responsabilità per le politiche di parte reale. Per chiarire il mio punto di vista propongo ora un esercizio di “storia virtuale”. Per un momento prescindiamo dal piano politico e supponiamo che gli attacchi speculativi vi siano stati ma che, come per incanto, siano cessati. Guardiamo allo stato dell’economia reale e supponiamo che, per un incantesimo ancor maggiore, l’Europa unita abbia un sistema istituzionale di governance dell’economia simile a quello che avevano, fino al 1980, i paesi allora membri della Comunità europea.

Sostengo che, in un tale mondo virtuale, esisterebbero oggi, paradossalmente, condizioni migliori di quelle degli anni ’90 (gli anni in cui è decollato il processo che avrebbe portato all’euro) per avviare l’Europa verso una accelerazione della crescita; condizioni che, in un qualche senso, ricordano quelle di molti paesi industrializzati alla vigilia della Seconda Guerra mondiale. Esiste infatti, a seguito della recessione indotta dalle ripercussioni degli attacchi speculativi, capacità inutilizzata e disoccupazione. Ciò apre spazi per una politica della domanda che ha margini per stimolare una ripresa della produzione per qualche tempo senza essere eccessivamente inflattiva. Per legare tuttavia queste opzioni non ad un mero aggiustamento una tantum dei livelli di produzione bensì a una progressiva accelerazione della crescita, il ciclo da avviare deve far perno su quell’insieme di attività di investimento che tante indagini serie hanno mostrato essere correlate, non singolarmente bensì complessivamente e probabilisticamente, con lo sviluppo di ambienti innovativi, capaci di generare nuovi prodotti e nuovi processi (sostanzialmente sequenze che legano ricerca fondamentale, applicata, e istruzione superiore alle attività industriali). La crescita di competitività in Europa non può essere infatti affidata allo sfacelo della risorsa umana conseguente allo smantellamento delle politiche sociali, bensì alla produzione di beni di maggior valore.

Dopo un prolungato periodo di relativa stagnazione, seguito da una recessione, un ciclo espansivo innescato da tali investimenti (qualcosa di ben diverso dalle solite “grandi opere pubbliche”) anziché da spontanee aspettative di ripresa della domanda, non può essere affidato al mercato, ancorché si possa ampiamente usare ed attivare il mercato. Quel che occorre è un programma europeo credibile, concertato con imprese e parti sociali, l’adesione al quale da parte delle imprese che si conformano al programma sia incentivata, agevolata sul piano del finanziamento e in varia misura “protetta”, soprattutto per le imprese che per prime, rischiando (ma non troppo), aderiscono. Nel valutare tale opzione occorre tenere presente che le spese per investimento avrebbero comunque effetti indiretti positivi sui consumi, ancorché all’inizio relativamente contenuti, che tenderebbero a saturare gradualmente ma affidabilmente la “vecchia” capacità eccedente e a cooperare al riassorbimento della disoccupazione. Le politiche di bilancio europee – in parte finanziate con gli eurobonds ed in parte con finanziamenti in deficit direttamente monetizzati da una non autonoma Bce – dovrebbero dare forza e credibilità al programma, insieme a politiche industriali e commerciali europee di portata paragonabile a quelle degli altri grandi poli competitivi planetari. Fin qui la storia virtuale.

Mancano invece, purtroppo, le condizioni politiche. Esse sono tante, ma concordo con Susan George su quella più essenziale: “La Bce è l’ostacolo al successo, non l’euro di per sé … C’è bisogno di un nuovo statuto con una Bce molto più simile alla Fed statunitense”. Le ragioni sono accennate, ma palesemente il suo riferimento è alle cessioni di potere statuale alle banche centrali (e ad altre tecnocrazie) cui ho fatto in questi articoli vari riferimenti, nonché agli usi a dir poco stravaganti che del potere ceduto è stato fatto. A monte, in ogni caso, vi è il problema – irrisolto – delle ragioni culturali e ideologiche che stanno dietro a questa fuga dai principi della sovranità politica. E quanto la fuga sia grave e al contempo palese è stigmatizzato così: “Ora la Commissione europea vuole esaminare i bilanci dei singoli paesi membri prima che i rispettivi parlamenti li votino per essere sicura che essi rispettino dati standard. E questo è un attacco sfacciatamente evidente (blatant) alla democrazia”.