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Una svolta incompiuta

Nel dibattito sul reddito di cittadinanza si fanno molte confusioni, lessicali e pratiche. È cosa diversa dal salario minimo e dalle garanzie per i più poveri, legandosi invece al diritto all’esistenza

Confusioni, non solo lessicali, sul reddito di cittadinanza [1]

La persistenza della crisi economica e l’aumento sia della disoccupazione sia dei fenomeni di dualizzazione del mercato del lavoro hanno fatto tornare di attualità il dibattito sul reddito di cittadinanza, incluse le ambiguità e slittamenti di significato di cui è spesso oggetto, nella confusione tra salario minimo, reddito di garanzia per chi si trova in povertà e reddito universale di cittadinanza.

La questione del salario minimo è stata sollevata a livello europeo dal presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker il 10 gennaio 2013, in un modo che, a mio parere, ha alimentato la confusione tra i diversi problemi e misure. Dopo aver dichiarato, infatti, che una disoccupazione all’11% nell’eurozona è un problema insieme drammatico e ampiamente sottovalutato, ha proposto di introdurre un salario minimo in tutti i paesi dell’euro per non perdere la credibilità presso i lavoratori e il loro sostegno. Non è chiaro, tuttavia, come l’esistenza di un salario minimo per coloro che sono occupati (…) possa rispondere ai bisogni di reddito dei disoccupati, specie quelli di lungo periodo, che quindi hanno spesso perso il diritto all’indennità di disoccupazione, e ancor più a coloro che, come i giovani di ambo i sessi e molte donne di mezza età, cercano lavoro ma, non avendone perso uno in precedenza, si trovano privi di sostegni al di fuori della solidarietà famigliare. (…)

Lontana dal concetto di reddito di cittadinanza è anche la proposta avanzata nell’ottobre 2012 dalla Commissione europea di istituire un Fondo europeo di aiuto ai più poveri [2], che consenta di acquistare beni di prima necessità – durevoli e di pronto consumo – da distribuire, appunto, ai più poveri. Tale misura, infatti, non solo è concepita come fortemente legata a una prova dei mezzi, ma sarebbe destinata alle associazioni che si occupano dei più poveri e non direttamente a questi ultimi. Inoltre, condiziona l’erogazione dei fondi alla messa in campo, da parte delle associazioni che li riceverebbero, di azioni di “attivazione” dei beneficiari finali, riconoscendo quindi solo in modo condizionato il diritto di questi ultimi all’esistenza. Infine, anche con un target così ristretto, il bilancio previsto è di soli due miliardi e mezzo in sette anni, a fronte di un bisogno, stimato dalla stessa Commissione, di quattro miliardi e settantacinque milioni. Difficile che i paesi in cui vi è una maggiore concentrazione di gravi situazioni di povertà possano integrare la quota mancante, se non altro in considerazione dei vincoli imposti dalla stessa Commissione europea con il patto di stabilità.

Più interessante è la proposta di Vignon e Cantillon, [3] secondo cui, nel momento in cui la Commissione impone la regola del pareggio di bilancio a tutti i paesi dell’eurozona come regola costituzionale, dovrebbe anche imporre una norma di salvaguardia, di pari dignità, tesa a garantire un minimo sicurezza economica e anche a rafforzare l’accesso ai servizi non di mercato. È una posizione che riecheggia la Risoluzione del parlamento europeo del 20 ottobre 2010, sul “ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa”. [4] (…) Siamo ancora lontani dal reddito di cittadinanza universale (…), ma più vicini all’idea di un diritto universale alla sussistenza, entro l’Unione europea, che va garantito in modo incondizionato da risorse pubbliche quando i singoli, anche per decisioni economiche che non controllano, non sono in grado di garantirselo da sé. Peccato che questa risoluzione del Parlamento europeo sia rimasta lettera morta.

Le confusioni lessicali e pratiche sono particolarmente diffuse nel dibattito italiano. Anche trascurando le enunciazioni fatte nell’ultima campagna elettorale, “reddito di cittadinanza” sono state chiamate misure rivolte a platee ristrettissime, per motivi di bilancio, di poveri messe in atto in questi anni da alcune regioni, come ad esempio la Campania e la Basilicata, mentre avrebbero dovuto chiamarsi più correttamente, come è avvenuto in altre regioni (ad esempio il Lazio) o province (ad esempio Trento) redditi minimi, o minimi vitali, riservati, almeno sulla carta, a persone in condizioni di povertà. [5] Soprattutto quando, come è avvenuto in Campania e Lazio prima che la misura venisse sospesa, e come avverrà con la nuova social card, neppure tutti i teoricamente aventi diritto ricevono la misura per mancanza di fondi, e si fanno ulteriori graduatorie del bisogno, non è davvero opportuno parlare di cittadinanza, perché non vale neppure il criterio minimo della certezza di un diritto, sia pure su base selettiva. In realtà, in questi anni diverse sono state le proposte di introduzione non già di un reddito universale di cittadinanza, ma di un reddito minimo garantito e universale per i poveri – e in questo senso garanzia di cittadinanza per questi ultimi.[6] (…) Tutte queste proposte, anche quando fondate su accurate analisi sia dei costi che delle possibili fonti di finanziamento (in primis tramite una riconversione di istituti esistenti), si sono finora scontrate non solo con problemi di bilancio, ma soprattutto con una difficoltà politico-culturale a far percepire il diritto alla sussistenza come un diritto umano e di cittadinanza fondamentale.

Questa difficoltà (…) contrasta con quanto è avvenuto a livello di riflessione teorica, ove in misura crescente il diritto alla sussistenza viene concepito come diritto costituzionale, a livello nazionale e dell’Unione europea. Come osserva, ad esempio, Rodotà, il diritto all’esistenza appare con particolare nettezza nelle Costituzioni del secondo dopoguerra, a partire da quella italiana che all’art. 36 statuisce il diritto a “un’esistenza libera e dignitosa”, un’espressione che si ritrova quasi simile all’art. 23.3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu, ove si parla di “esistenza conforme alla dignità umana”, ripresa poi dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“esistenza dignitosa”).[7] (…) Pur muovendo dalla garanzia di un reddito minimo da assicurare a chi non lo ha, l’ottica dovrebbe essere quella della cittadinanza nel senso di patrimonio di diritti inalienabili della persona in quanto tale. Diritti non solo a “sopravvivere”, ma ad esistere. (…)

È la stessa prospettiva, mi sembra, che ha mosso la Corte Costituzionale tedesca, allorché ha dichiarato parzialmente incostituzionale la modalità con cui la riforma dell’assistenza del 2000 aveva individuato le soglie massime di sostegno economico per i poveri. Secondo la Corte tedesca, infatti, la combinazione dell’art. 1 della Costituzione, che statuisce l’intangibilità della dignità umana e dell’art. 20, che definisce la repubblica federale come uno stato federale e sociale, sottraggono alla disponibilità del parlamento la decisione se garantire o meno alle persone bisognose le risorse necessarie alla loro esistenza e a un minimo di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica. Il parlamento ha solo il dovere di onorare questo diritto, definendo criteri trasparenti e adeguati per la determinazione, appunto, della quantità di risorse necessarie.[8] Ben diversa è stata la posizione della Corte Costituzionale italiana (423/2004), che ha dichiarato illegittimo un intervento dello stato in questo campo senza previa consultazione con la Conferenza Stato Regioni, preoccupandosi correttamente di salvaguardare la competenza di questa dopo la riforma del titolo Quinto della Costituzione, ma senza trovare il modo di salvaguardare anche il principio del diritto alla “vita libera e dignitosa” (…).

La costituzionalizzazione nazionale ed europea del diritto all’esistenza sembra non essere ancora riuscita a trasformare nei fatti il diritto all’esistenza in un diritto inalienabile e non a disposizione dei governanti di turno, neppure nella forma di garanzia innanzitutto per i poveri. Non si tratta solo di questioni di bilancio, che vedono i poveri particolarmente deboli allorché si discute di che cosa e a chi tagliare. Si tratta anche della plurisecolare immagine del povero come tendenzialmente non meritevole, o con debole fibra morale. Nonostante sia chiaro che la disoccupazione crescente non è l’esito di scelte dei disoccupati e che l’inoccupazione sia in larga misura l’esito vuoi del carico di lavoro non pagato sopportato da molte donne, vuoi di fenomeni di scoraggiamento, si continua a pensare che i poveri debbano essere continuamente stimolati, attivati, per meritarsi un qualche sostegno, a prescindere dalla efficacia di tali “attivazioni”. Da questo punto di vista, è per molti versi paradossale la trasformazione, in diversi paesi, di misure di sostegno al reddito in misure welfare-to work, proprio mentre il lavoro sparisce. Allo stesso tempo, l’indebolimento, il mancato investimento, o la mercatizzazione di taluni beni pubblici – dalla scuola alla sanità – rischia di ridurre anche quel nocciolo di reddito autenticamente universale di cittadinanza che è costituito, appunto, dai beni comuni e dalla garanzia di accesso per tutti.

Per questo è opportuno continuare a mantenere aperto l’orizzonte discorsivo del reddito di cittadinanza, accettando i compromessi necessari, ma evitando confusioni.

[1] Estratto dalla prefazione alla nuova edizione di P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Università Bocconi editore, Milano 2013

[2] European Commission, Proposal for a regulation of the European Parliament and of the Council on the Fund for the European Aid to the most Deprived, SWD(2012) 350 final, Bruxelles, 24.10.2012, COM (2012) 617

[3] Vignon, Jerôme and Bea Cantillon, Is there a time for “Social Europe”? Looking beyond the Lisbon Strategy, OSE Opinion paper, no. 9, July 2012.

[4] Risoluzione del parlamento europeo del 20 ottobre 2010 sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa (2010/2039(INI)) www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P7-TA-2010-0375+0+DOC+XML+V0//IT [5] Una breve discussione di queste esperienze si trova in G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza, Torino, Ricci Edizioni, 2011, ove pure si utilizza il termine “largo” per intendere, almeno in prima istanza, un sostegno incondizionato e universale ai poveri, senza gerarchie di bisogno e richieste di contropartite. Si veda anche

[6] Per una rassegna, si veda BIN Italia, Reddito minimo garantito, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2012.

[7] Cfr. S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, Bari, Laterza, 2012, cap. IX

[8] cfr. www.bundesverfassungsgericht.de/pressemitteilungen/bvg10-005en.html