Top menu

Una società civile senza protesta?

La rotta d’Italia. La campagna elettorale apre alla “società civile” ma, quando questa inizia a protestare, si scontra sempre con una repressione pesante. Alla democrazia serve riaprire gli spazi di conflitto

Mai come in questa campagna elettorale la società civile è stata invocata da varie parti come soluzione alla degenerazione delle istituzioni politiche. Nel tentativo di aggirare il crollo di consenso ai partiti (di cui si fidano, secondo recenti sondaggi, non più del 6% degli italiani), le varie liste elettorali hanno inserito e promosso candidati della società civile, interpretata via via come tutto-ciò-che-non-è politico di professione, dal banchiere all’industriale, dal giornalista al magistrato. Se il grado di civismo dei candidati presentati come società civile varia, certamente alcune/i rappresentanti di associazioni che hanno svolto un ruolo importante sui temi della pace, dell’ambiente, del lavoro, dei diritti civili potranno certamente, se elette/i, contribuire a rappresentare una parte di questo paese, che si è sentita a lungo escluso dalle istituzioni parlamentari.

La concezione di società civile che sembra dominare le scelte dei partiti è comunque, non solo distorta, ma anche parziale e selettiva, non considerando quelle sfere di partecipazione non strutturate in associazioni o sindacati, che hanno contribuito a criticare e contrastare molte decisioni politiche degli ultimi anni — denunciando, prima, le continuità delle politiche dei governi Berlusconi rispetto a quelle del governo Prodi e, poi, quelle tra le politiche dei governi Berlusconi e quelle del governo Monti. Le politiche pubbliche sulla scuola e l’università, sul precariato, su privatizzazioni e liberalizzazioni, sulla costruzione della Tav in Val di Susa e l’ampliamento dell’aeroporto militare Dal Molin a Vicenza testimoniano di queste continuità trasversali, dai governi di centro-destra a quelli di centro-sinistra e viceversa, fino alle politiche dell’ultimo governo di grande coalizione.

Soprattutto, nella campagna elettorale, la società civile è stata vista come timida e sottomessa, escludendo chi, di fronte a una chiusura istituzionale bi-partisan, ha utilizzato forme di partecipazione politica diverse e più dirompenti di quella elettorale o del lobbying: occupando aziende in via di smantellamento e binari, scuole e università; bloccando strade e accampandosi nelle piazze o sui tetti; costruendo presidi nelle valli alpine, nella pianura padana, ai due lati dello stretto di Messina. Queste forme di protesta sono servite a ricostruire solidarietà, elaborare soluzioni possibili, sperimentare nuove forme di democrazia.

Nell’agire collettivamente, i cittadini mobilitati nelle miriadi di proteste dell’ultimo decennio hanno contribuito a creare quello che il sociologo francese Pierre Rosanvallon ha chiamato contro-democrazia, o democrazia del controllo (dal basso), considerandola come necessario complemento alla democrazia elettorale. Come ha scritto Rosanvallon, però, perché nelle nostre società la sfiducia nelle istituzioni possa essere trasformata da una sfida ad una opportunità, occorrono delle riforme istituzionali che rendano le decisioni pubbliche più trasparenti e partecipate “dal basso”. A livello locale, proprio in un tentativo di compensare la crisi di legittimazione dei partiti e i suoi effetti in termini di crisi di efficienza, meccanismi di democrazia partecipativa e deliberativa sono stati sperimentati, talvolta prendendo ad esempio istituzioni come il bilancio partecipativo di Porto Alegre.

Paradossalmente però, insieme a questi (timidi e meno che imperfetti) tentativi di riforme includenti, c’è stata nell’ultimo decennio un’esclusione e repressione di questa società civile, attraverso un netta inversione di una tendenza a una maggiore toleranza verso forme diverse di protesta, e politiche di ordine pubblico orientate alla de-escalation. Negli anni duemila, infatti, cariche violente a cortei autorizzati, già sperimentate durante le proteste contro il G8 a Genova nel 2001, si sono ripetute in diverse occasioni, contro gruppi sociali considerati come potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico. Diversamente che nel passato recente, questa categorizzazione non ha incluso solo hooligans e anarchici, ma anche pastori sardi, lavoratori disoccupati, sindaci e cittadini della Val di Susa o delle zone scelte a deposito di rifiuti e inceneritori.

Mentre centro-destra e centro-sinistra convergevano contro “la piazza”, le politiche di ordine pubblico si sono inoltre dotate di nuovi strumenti di repressione della protesta. Agli strumenti amministrativi come il confino di polizia e le perquisizioni ex art. 41 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza — residuati dalla legislazione fascista, solo imperfettamente riformata — si sono aggiunte nuovi discrezionali poteri di polizia, elaborati nel controllo del tifo calcistico, e poi estesi a chi manifesta su temi politici e sociali (come l’obbligo di restare in casa in occasione di particolari eventi, estesi dalle partite di calcio alle manifestazioni politiche). Da Genova in poi, la pratica di impedire ai manifestanti l’accesso ad aree ampie e simbolicamente rilevanti si è ampliata e perfezionata, nei fatti subordinando il diritto alla protesta al mantenimento dell’ordine pubblico (concepito in maniera ampia, fino ad includere il disturbo al traffico). Zone rosse, chiuse agli attivisti ma anche ai normali cittadini, sono state disegnate non solo attorno ai centri cittadini, ma anche a prati e boschi, valli e colline. Per bloccare le proteste contro le discariche in Campania e la costruzione della Tav in Val di Susa, il decreto legge 90 del 2008 e la legge 183 del 2011 hanno definito le zone interessate come “aree di interesse strategico nazionale”, accrescendo considerevolmente le pene non solo per chi entra in quelle aree, ma anche per chi impedisce l’accesso ad esse. Al contempo, reati un tempo rarissimamente contestati, come quelli di devastazione e saccheggio, sono adesso ampliamente utilizzati per punire chi protesta, anche in occasioni di danni minori alle cose ed ampliando le responsabilità dall’individuo al gruppo di chi protesta. Accanto all’aumentato arsenale di leggi anti-protesta, si è osservata una militarizzazione di interi territori, oltre che degli strumenti in dotazione alle forze di polizia.

Un riconoscimento reale della società civile comporta una netta inversione di queste tendenze all’esclusione dei cittadini dal processo di decisione politica, e il riconoscimento della protesta come loro importante risorsa. Abolire le leggi che, come quelle appena menzionate, subordinano importanti diritti civili e politici all’interesse di pochi, realizzare una riforma democratica effettiva delle forze di polizia, riconoscere il valore di bene superiore del diritto alla protesta sono passaggi indispensabili nella costruzione di istituzioni di contro-democrazie, che valorizzi il ruolo dei cittadini nella società e nella politica.