Top menu

Tutta la notte ci cantano i Grillo

Era il 2007 quando Beppe Grillo lanciò il suo “Vaffa day”. Quest’analisi di allora, pubblicata sulla rivista “Lo Straniero” appare profetica. Anticipazione dal libro “Ci fu una volta la sinistra”

Proviamo a considerare il fenomeno Grillo dal punto di vista della storia del teatro o, se è eccessivo parlare di storia, della sua cronaca. La proposta può fare un certo effetto ma magari dà qualche risultato, il primo dei quali è ricordarsi che appunto di teatro si tratta, e che la politica è soltanto il mare davvero magnum che rischia di divorare tutto e tutti e di farci capire troppo poco. Invece Beppe Grillo è un comico, come lui stesso più volte ricorda e rimprovera. Forse comico è una parola grossa, meglio sarebbe dire un attore buffo, un intrattenitore abile, un agitatore divertente, ma in ogni caso fa teatro ed è inutile polemizzare con le sue qualità artistiche e cercare di misurare il suo talento. Lo sappiamo e lo vediamo: con tutti i suoi alti di una voce acida e i bassi di un linguaggio basico, con una gestualità affannata che si dibatte fra limiti invalicabili, con una mimica che alterna occhi spalancati a occhi sbarrati, non è certo padrone di un’arte raffinata, ma infine la fissità di una maschera ha anche i suoi vantaggi. Da quando Benigni ha voluto mettersi a recitare e perfino fare il verso a Dante gli è caduta la maschera ma non gli è venuta una faccia, e da quando Dario Fo s’è messo a rubare il mestiere a Sgarbi funziona sempre meno.

Beppe Grillo ha fatto uno spettacolo che si potrebbe intitolare Comizio. In effetti sono anni che Grillo fa spettacoli con questo sottotitolo sempre meno segreto, ma stavolta ha avuto più del solito successo, irrompendo nel succedere dei fatti reali. O così è se vi pare. Sarà stato favorito dal clima politico o dalla mutazione di un pubblico che sempre più si confonde con la pubblica opinione, ma – per quanto attiene alla cronaca teatrale – non si possono ignorare i decisivi cambiamenti di scena. Stavolta la sua performance si è aperta come un’installazione di piazza, il suo soliloquio isterico si è trasferito in platea trasformandosi in capillare e tormentosa animazione, il suo calendario si è esteso oltre le date delle rappresentazioni programmando una coda festiva e una questua di firme che in un solo giorno ha coinvolto più di trecentomila spettatori, che hanno così sottoscritto, come coautori. il testo del suo spettacolo. Sono cioè passati da spettatori passivi di teatro ad attori di una “festa del vaffanculo” che ha prolungato il gioco comico ben oltre l’appuntamento spettacolare, e ha fatto debordare anche il pubblico dalla piazza della finzione alla televisione della realtà. E così è, se ai politici e ai giornalisti così pare. E in effetti così gli è parso.

Grazie a loro e a loro soltanto un atto serioso di un carnevale fuori stagione, coda agitata ma festosa di uno spettacolo in forma di comizio, ha finito di essere “politica in teatro” passando direttamente e finalmente nel “teatro della politica”. Di norma gli stessi protagonisti lo chiamano per la verità “teatrino” e con ragione, poiché più di un teatrum del pensiero e dell’azione politica, è appena la scena dei loro battibecchi. Ed è proprio lì che s’è intromesso il Grillo ed è dunque qui il primo equivoco da chiarire. Non si può continuare a chiamare e scomunicare come antipolitica ogni gesto e pensiero contro i politici (già politicanti). Nel caso di Grillo e del suo spettacolo la cosa è addirittura lampante: perfino le proposte di legge controfirmate riguardano i politici e soltanto loro, la loro fedina penale e la durata del loro privilegio civile. Non c’è nessun dubbio che nel chiedere di limitare a due legislature il regno degli eletti, ogni firmatario abbia anche voluto rendere più veloce e quindi più accessibile una delle due lotterie preferite dagli italiani: quella parlamentare del “saranno potenti”, appena appena diversa dall’altra televisiva del “saranno famosi”, probabile obiettivo del prossimo spettacolo e festa del Grillo nazionale. Non c’è nessun dubbio che gli spettatori del teatro e gli elettori della politica pensino che diventare “politici” sia una pacchia e perfino una gloria, e che – in democrazia – questa carriera dovrebbe diventare un’opportunità per molti e non rimanere appannaggio dei soliti noti, anche quando colpiti da condanne da soliti ignoti. C’è dell’ovvio in Danimarca, ma non è questo che deve scandalizzarci. Quello che invece deve colpirci è la reazione degli attori politici dei teatri stabili del potere e sottopotere. Le loro repliche sul “grillismo” sono durate almeno un mese in tutti i palcoscenici e i palinsesti possibili, spostando nel foyer il discusso matrimonio del partito democratico e nel fumoir il faticoso parto della finanziaria. Inutile fare dei nomi: dai padri rifondatori della patria ai guardiasigilli della famiglia di bufala, dai direttori della repubblica ai sartori della costituzione, giù giù fino ai vecchi nani e alle ballerine, ai nuovi gnomi e alle mussolini, non c’è stato un politico che non abbia parlato a favore della politica vilipesa. Grillo è stato scambiato per un termometro, per un megafono, per un ferro da stiro…

È stato invitato a tutte le ore e a tutte le trasmissioni e perfino a casa di Mastella, ma solo quest’ultimo invito sembra – al momento in cui scriviamo – essere stato accettato. È stato tacciato di populismo e di qualunquismo da chi continua a voler ignorare il passato e il senso di questi movimenti politici, ma soprattutto da chi non sa che in teatro questi termini andrebbero tradotti con “volgarismo” e “qualunqueria”. Se da solo aveva già migliaia di spettatori e centinaia di migliaia di firme, la ferma reazione progressista dei politici italiani ha dato a Grillo, al suo spettacolo, alle sue proposte di legge e perfino al suo blog (fra i primi dieci del mondo!) una pubblicità che Berlusconi e Veltroni se la sognano (per tacer di Bossi).

Insomma l’effetto Grillo è diventato cento volte più grande del difetto. Non vale discutere sul merito o sulla colpa, ma rendersi conto che non era mai successo un incontro ravvicinato di questo tipo tra teatro e politica. Nei tempi andati si sono visti ben più efficaci teatri politici sconfinati in manifestazioni di piazza; nei tempi recenti ci sono state censure politiche che hanno esiliato attori e sospeso programmi televisivi, ma fin qui l’autorità del reale e la creatività del teatrale avevano ancora confini. Come è possibile che sia toccato a un povero grillo parlante il destino di passare il Rubicone? Come si spiega se non completando la metafora e riscoprendo per l’ennesima volta che il nostro e il suo è il paese dei balocchi, abitato e governato da comici In competizione tra loro?

Può sembrare un’offesa gratuita ma invece – a forza di telegiornali e di gossip, di talk show e di cento altre variazioni pubblicitarie – si è compiuta per l’intera classe politica e dirigente un’effettiva equazione fra l’immagine pubblica e la maschera teatrale. In questo siamo leggermente più avanti di tutti gli altri politici degli altri paesi. Quel leggermente che confonde definitivamente i ruoli e i linguaggi, le parti e le arti delle fin qui divise retoriche della scena e della vita pubblica. Quel leggermente che ci fa pensare che non sia stato Grillo a scavalcare la liminarità del teatro e della festa per entrare nella quaresima dei quotidiani, ma prima di lui sono stati i nostri politici a occupare e governare quei carnevale apparente e appariscente che dura tutto l’anno.

L’effetto Grillo allora si può leggere al contrario. Non come rivelazione ma come rivitalizzazione delle maschere ufficiali e delle scene istituzionali. Non è stato lui il primo ma l’ultimo che ha fatto l’inganno (teatrale) e ha trovato la legge (politica). Se questa tardiva scopiazzatura può aver irritato i veri protagonisti del nostro mondo alla rovescia, ha fornito loro anche il pretesto per riprendere toni e volumi da primi attori. Qualcuno riscoprendosi vene drammatiche e d’impegno civile, qualcun altro rivendicando per sé l’autentica comicità. Tutti infine chiedendo a Grillo di raggiungerli senz’altro nella loro scena, che è l’unica finta e che è l’ultima vera che c’è.

Hanno per l’ennesima volta ragione loro. Non è il teatro di Grillo a tener piazza, è il teatrino della politica che si è dilatato e innalzato fino al primo comandamento. “Non avrai altro teatro al di fuori di me”, come ai tempi dei Neroni o dei Berlusconi e compagnia cantante.

Presentiamo qui un capitolo del volume di Piergiorgio Giacchè “Ci fu una volta la sinistra, ovvero il silenzio dei post-comunisti”, Roma, Edizioni dell’Asino, 2013 (151 pp., 12 euro, www.asinoedizioni.it). Il testo era stato pubblicato originariamente su “Lo Straniero” del novembre 2007 (www.lostraniero.net).