Top menu

Populismo argentino, la versione autentica

Analisi degli ultimi 60 anni in Argentina, patria di alcune versioni del populismo e modelli antitetici di intervento economico che non hanno risolto i problemi di fondo. E il kirchnerismo ha diviso la società in “buoni” e “cattivi” (la grieta).

Dalla rivolta antispagnola della borghesia mercantile contro la nobiltà terriera del XVI secolo, alla guerra civile fra unitari e federalisti che portò alla prima dittatura[1] del Generale de Rosas del XIX secolo, dai colpi di Stato del secolo scorso che determinarono diversi regimi autoritari, fino ai giorni nostri con quello che si chiama la grieta (la breccia, la divisione) della società tra kirchneristi e il resto della cittadinanza, Argentina ha vissuto sempre di dualismi.

Dualismi che non hanno mai fatto bene al Paese e riducono tutto al piano politico, come lotta permanente per il “potere” senza riuscire a convergere in una visione condivisa di Paese alla quale tendere in termini di priorità sociali come diritti dei suoi cittadini.

In tale contesto, per uno studioso è difficile cogliere ciò che è struttura da ciò che è sovrastruttura, nel senso di ciò che è solamente lotta per il potere da ciò che gli eventi oggettivamente rappresentano. Come le cause delle tante crisi di sistema economico e finanziario che l’Argentina ha vissuto negli ultimi ‘60 anni nonostante i diversi modelli diametralmente opposti che si sono alternati. 60 anni in cui il principale problema è stato il suo deficit pubblico e l’inflazione che è stata sempre il principale fantasma della sua economia che nel 2001 ha fatto vivere una delle crisi di sistema più importanti della sua storia.

Di fatto, la crisi del 2001 avvenne dopo 10 anni di neoliberismo sfrenato che portò a un debito pubblico esterno di 144 miliardi di dollari (con un incremento di circa 24 miliardi di  dollari rispetto all’anno precedente)[2].

Le sue cause affondano le sue radici alle politiche dell’epoca della dittatura dove si misero in marcia, con il keynesianesimo in crisi in tutto il mondo, riforme neoliberiste come quella finanziaria e quella del mercato che distrussero l’industria interna e produssero ciò che si chiama il processo di deindustrializzazione del Paese[3].

Si ricercarono finanziamenti esterni (investimenti esteri diretti) senza un piano di sviluppo strategico interno che portò il Pil (PIB) industriale a una caduta di 14 punti alla fine degli anni ‘90 e a un’inflazione del 3.000% nell’’89. È con tali credenziali che si entra nel nuovo millennio e al 2001 arriva una crisi chiamata “globale” perché investì tutti i campi. Tra le sue nefaste conseguenze, si ricorda un’indigenza di massa, praticamente inesistente prima degli anni ’90, e una caduta vertiginosa dei dati della povertà passando in pochi mesi, dal maggio del 2001 a dicembre dello stesso anno dal 32,7% al 54,3%[4].

Fu una crisi globale e vertiginosa perché fallirono anche circa 10.000 imprese in tutto il Paese, e al 2002 si fece registrare un tasso di disoccupazione del 21,5% seguendo un andamento crescente dal 1999 di 6 punti percentuali[5]. Dato che insieme al tasso di sottoccupazione (ovvero di coloro che lavorano meno di 35 ore settimanali ma vorrebbero lavorare in condizioni di tempo pieno) arrivò ad essere del 40%.

Si polarizza la ricchezza e cresce la sua ineguaglianza distributiva; l’indice di Gini si assesta su valori del 0,551 nel maggio 2002. Solo a partire del secondo trimestre del 2003, periodo in cui l’economia riprende a crescere, si avrà un cambio di tendenza di tale indice che retrocede ad un valore di 0,491 (Rapoport, 2008)[6].

L’incapacità di conseguire un lavoro, l’insicurezza sociale e la mancanza di risparmio porta a una crisi strutturale della società che investe fortemente la classe media. Nasce, di fatto, un fenomeno inedito per l’Argentina che è stato definito “la nuova povertà della classe media”. La gente mette in discussione il modello democratico, scende in piazza in massa e, prima di tutto, si mobilità in una maniera mai vista prima per poter riappropriarsi di una democrazia fino ad allora in mano di scelte economiche e finanziarie che hanno portato il Paese alla bancarotta. Nascono i piqueteros, le imprese recuperate, le assemblee di quartiere che danno una nuova visione e forza al “movimentismo sociale” che abbraccia tutti gli ambiti della vita pubblica.

Ed è in questo contesto di forte fermento sociale che nel 2003 si insedia il kirchnerismo. Prende vita dalle macerie della crisi e si inventa un nuovo modello populista che cerca di canalizzare la spinta movimentista con la costruzione permanente della legittimità dello Stato, ispirandosi alla “nuova ragione populista” di Ernest Laclau.

Per capirlo, bisogna riprendere Hegel e Gramsci che l’autore reinterpreta in una versione statalista-populista coniugando il ruolo della società civile gramsciana con il “sommo bene” che lo Stato hegeliano rappresenta. E lo fa proponendo un nuovo ruolo dello Stato, quello di incorporare dentro le sue maglie progressivamente pezzi di società e gestirli per costruire il suo consenso, e a questo se lo chiama popolo a cui rivolge principalmente la sua azione in termini di risposte possibili e non ideali. Il resto della società è il “nemico” nei termini di Carl Schmidt, sul quale legittimarsi o da conquistare per portarlo dentro e ampliare le maglie della ragione populista ovvero dentro il controllo permanente dello Stato.

L’unica cosa è che Hegel affermava che la società civile tende allo Stato e non era questo che doveva incorporarla, aspetto che non è indifferente nei termini del presupposto dell’esistenza del valore della libertà di una società, che è condizione essenziale per potersi autodeterminare. Ad ogni modo, è in questo scenario che sono nati 12 anni di populismo kirchnerista che ha diviso praticamente la società in due, la famosa grieta, aumentando un odio sociale che non si era mai vissuto finora. Famiglie, gruppi di amici, ambiti privati e pubblici divisi a causa di un odio alimentato permanentemente con il linguaggio dei discorsi ufficiali e che ha radici profonde, secondo alcuni agli anni Trenta, al forte scontro tra proletariato nascente e la oligarchia terriera che oggigiorno non è stato superato[7]. Un odio che tutt’ora è presente e divide il Paese in kircheristi (che si proclamano i giusti) e non kirchneristi. Dodici anni di un modello che si è acutizzato negli anni della moglie di Kirchner, Cristina Fernandez, che ha cercato di risolvere i suoi problemi economici sempre uguali da quasi 60 anni, deficit e inflazione, finanziandosi internamente, ovvero emettendo moneta e tassando ulteriormente l’esportazione del settore agro-pecuario per sostenere la forte domanda di piani sociali messi in campo con il fine di arginare la marginalità della crisi e aumentare la domanda di consumo.

Ma l’inflazione è rimasta sempre alta a testimonianza di un problema nella matrice produttiva, e nonostante la chiusura del Paese al dollaro (cepo cambiario) la distanza del peso con la moneta statunitense è aumentata progressivamente fino ad arrivare a dover svalutare di nuovo di un 27% nel 2014 per frenare la forte inflazione (svalutazione che annullò di un terzo i risparmi locali in pesos in un solo giorno).

A tutto ciò, bisogna aggiungere che tale modello ha espresso un livello di corruzione per autofinanziarsi sul piano politico (aggiungiamo noi, per fini populisti) mai visto neppure negli anni di Menem, e ha portato alla maggioranza della società a rifiutare proprio i suoi presupposti populisti principali che erano diventati: gestione del voto popolare con piani sociali che non hanno sviluppato mai un tessuto produttivo che potesse dare indipendenza alle classi meno abbienti mantenendoli invece a livelli di sussistenza permanente; basta ricordare che al 2015 quando il kirchnerismo cedette il potere, si registrava circa il 27% di povertà, praticamente come ai livelli prima della crisi del 2001 nel suo pieno momento neoliberista; e il minimo storico delle riserve della Banca Centrale (negli ultimi anni si attingeva alle sue risorse per finanziare le politiche interne).

Oggi, dopo il 2015, per pochi voti si installa un nuovo modello, di impronta principalmente neoliberista. Un modello diametralmente opposto all’anteriore che ricorre ai mercati per finanziarsi, emettendo debito esterno, e aumentando in maniera spropositata (fino anche a un 1.000%) le tariffe dei servizi pubblici per controbattere il deficit e l’inflazione. Tutto ciò porta il Paese a dover chiedere di nuovo aiuto al FMI, perché i mercati hanno risposto in maniera inaspettata.

Ma tale modello centrandosi sulle variabili macroeconomiche lascia completamente da parte gli aspetti microeconomici e, come l’anteriore, non ha nessun piano di sviluppo produttivo che possa permettere di generare risparmio e crescita genuina, che possa essere investita nel Paese senza aumentare in maniera surreale la domanda di consumo o dover ricorrere ai mercati speculativi.

L’Argentina è così di nuovo in bilico di una crisi perché da oltre 50 anni non risolve i suoi problemi strutturali economici che nessuno dei due modelli, populismo-neoliberismo, affronta, ovvero: la crescita industriale e l’aumento di valore aggregato.

Dipende da politiche monetarie che cercano di mettere delle pezze a valle e non riesce a incidere realmente nei giochi che contano, per esempio canalizzare la spinta movimentista del 2001 e trasformarla da protesta in classe operaia, formandola e dando a questa protesta nuovi orizzonti. Ma il populismo l’ha utilizzata per mantenere il suo potere senza risolvere i suoi problemi di base. Il neoliberalismo, invece, si affida a un’economia di interessi finanziari sperando che da questa possa nascere un bene comune per il Paese.

Come fare? La risposta è complessa ma un aspetto essenziale, a nostro avviso, è definire un nuovo “patto sociale” che garantisca una “domanda di diritti del Paese” che orienti l’economia e non la lasci in balia di capitali finanziari sciolti da un legame con la produzione.

Perché dietro qualsiasi sistema c’è sempre un “potenziale soggetto di diritti” (anche universali che personalmente definisco “relazionali e costitutivi di una società”) che si formano dalla relazione con l’altro e con la materialità, noesis e noema, che rappresenta sempre una funzione, un concetto, un’idea e non si può ridurre tutto a calcoli di interessi monetari con la sola logica matematica.

E anche perché, proprio per queste ragioni, il Paese è in balia di un altro deficit, forse più importante, quello del conto delle partite correnti. Ovvero ha bisogno di importare beni per poter vivere. E a tal fine la spinta movimentista non può essere risucchiata in giochi di potere[8] se qualcosa dal 2001 si può aver appreso.

Ma deve essere libera e insieme al resto della società è chiamata a fare un salto di qualità che sia nell’ambito della responsabilità, ovvero uscire dai propri interessi personali anche, a volte, di rapina, e costruire un orizzonte nuovo che contempli scelte di settori produttivi strategici per la società e financo per la vita umana.

Per tali ragioni, ciò dipende dalla responsabilità di tutti, ed è in tale scenario che è necessario parlare di una dimensione istituzionale nuova che garantisca una nuova economia che per anni è stata solamente commerciale o monetaria senza sviluppare al suo interno un valore aggiunto di qualità frutto di quel “vero capitale economico”, come lo definiva Hegel, ovvero della sapienza dei suoi lavoratori e non della circolazione di valori finanziari senza orizzonte e base con la produzione reale.

 

Francesco Vigliarolo è  docente Titular, Economia Regional, UCALP in Argentina

(fvigliarolo@gmail.com)

[1] Il termine dittatura in questo caso è controverso in quanto il contesto è da considerarsi sicuramente differente. Resta il fatto che fu una presa del potere politico con la forza delle armi che vide una conseguente gestione militare.

[2] Fonte Ministero dell’Economia argentino, www.mecon.gov.ar.

[3] Vigliarolo F., (2011). Le imprese recuperate argentine. Dal crac finanziario alla socializzazione dell’economia, Città del Sole-Altreconomia, Reggio Calabria-Milano.

[4] Dati secondo il rilevamento della “Encuesta Permanente de Hogares”, programma per la rilevazione dei dati socio-economici dell’INDEC argentino, l’Istituto Nazionale di Statistica del Paese.

[5] Bisogna dire che dal 1999 il tasso di disoccupazione veniva crescendo passando dal 14,5% al 16% nel 2001. Il salto incontrollato si ebbe dal 2001 al 2002. Solitamente il tasso di disoccupazione era stabile tra il 2-6%.

[6] Da Vigliarolo, F., 2011, op. cit.

[7] Secondo alcuni l’odio sociale argentino risale alla caduta di Yrigoyen (radical) nel 1930 e alla irruzione nella scena política di Perón che diede diritti a “lo cabecitas negras” come venivano chiamati i poveri e dove nasce la prima forma di populismo argentina (riportando una cit. della giornalista Rosario Lufrano).

[8] Interessante leggere il libro di Scribano A., El purgatorio que no fue, che descrive come i movimenti sociali che sembravano dover cambiare l’ordine democratico alla fine sono diventati funzionali al potere politico nella era Kirchner.