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Più produttività, per contratto

Imprese e sindacati potrebbero fissare attraverso la contrattazione i target di produttività programmata ai quali commisurare la dinamica dei salari reali in termini reali

Qualche settimana fa si sono riuniti a Roma, alla Facoltà di Economia della Sapienza, alcuni economisti che negli anni recenti hanno studiato il “male oscuro” del declino della crescita della produttività nel paese in rapporto con la contrattazione collettiva. Tra loro Giuseppe Ciccarone, Nicola Acocella, Riccardo Leoni, Marcello Messori, Paolo Pini e numerosi altri (v. locandina [1]). Obiettivo dell’incontro era di confrontare i risultati delle analisi e le proposte di policy per verificare la possibilità di inviare al governo e ai partner sociali la proposta di un’uscita dal tunnel della crisi.

Dal dibattito sono emerse alcune idee fondamentali, che sintetizzo qui di seguito assumendomi ogni responsabilità di errori ed omissioni, che i partecipanti potranno ovviamente correggere e colmare nel corso di un dibattito che spero si faccia più ampio. Da un lato l’idea di affidare ai partner sociali il compito di proporsi, attraverso i contratti, target di produttività programmata ai quali commisurare la dinamica salariale in termini reali. In questo modo le imprese devono riorganizzarsi e conseguire i target se vogliono evitare lo shock di aumenti salariali non fondati su di un effettivo miglioramento della produttività. Dall’altro quella di attribuire ai partner sociali anche il compito di negoziare ben definite linee guida sulla riorganizzazione dei luoghi di lavoro, al fine di assicurare il conseguimento degli incrementi di produttività programmati: utilizzo delle tecnologie, adozione di modelli organizzativi flessibili, istaurazione di rapporti di lavoro “ad alta performance”, basati sull’accumulazione, creazione e diffusione di conoscenza e saperi produttivi innovativi.

Questi elementi di riforma della contrattazione, per essere davvero efficaci, devono collocarsi nell’ambito di un più ampio quadro programmatico che spetta all’Europa e al governo di creare. Se è indubbio che le imprese italiane vanno riorganizzate e i luoghi di lavoro ammodernati e resi “intelligenti”, è però innegabile che, in assenza di un indirizzo nazionale ed europeo di politica economica e di politica industriale, gli sforzi dei partner sociali rischiano di dare frutti modesti e disorganici. Spetta in particolare al governo nazionale, in questo grave momento di crisi, fissare almeno i target della crescita e dell’occupazione e quindi, implicitamente, anche il target di produttività dell’intera economia, che altro non è che il rapporto tra l’obiettivo di prodotto e quello di occupazione. Si tratta di una responsabilità che il governo deve assumere esplicitamente, ed è compito dei partner sociali incalzarlo perché lo faccia, in accordo con un disegno di politica economica e con un programma di politica industriale che indirizzino e agevolino la cooperazione sociale.

I partner sociali, peraltro, attraverso la fissazione contrattata della crescita della massa salariale e del rapporto tra crescita della produttività e crescita del salario reale, possono a loro volta individuare autonomamente ed esplicitamente anche il target di distribuzione funzionale del reddito, in termini di andamento della quota del lavoro nel valore aggiunto. Si tratta di qualcosa che, in Italia, sinora non è mai stato fatto, nonostante la stabilità delle quote distributive (o “legge di Bowley”) costituisca la “regola d’oro” della politica salariale, perché consente la massima crescita dei consumi senza esercitare pressioni inflazionistiche sui profitti e costituisce, inoltre, l’incentivo chiave alla cooperazione tra i partner sociali finalizzata al miglioramento della produttività e alla crescita.

In Italia, l’impianto contrattuale varato a luglio del 1993 e rimasto fondamentalmente inalterato fino ad oggi – attraverso il combinato disposto della mancata diffusione della contrattazione integrativa (secondo livello), che ancora esclude il 70 per cento circa dei dipendenti delle imprese, e della rigidità verso il basso in termini reali del salario “fondamentale”, definito dai contratti nazionali (primo livello) – ha fatto sì che si stabilisse un rapporto inverso e anticiclico tra crescita della produttività e quota del lavoro nel reddito. In sintesi, il meccanismo è questo: se la produttività cresce, la scarsa diffusione della contrattazione integrativa fa sì che i guadagni di produttività vadano ad accrescere la quota del capitale nel reddito. Se, invece, la produttività declina, la rigidità verso il basso del salario reale fondamentale (assicurata dalla contrattazione nazionale) fa tornare a crescere la quota del lavoro. Dagli anni ’80 al 2008, come ci ricorda l’Ilo, la quota del lavoro è caduta in Italia di 10 punti; ma con la crisi, in corrispondenza con la caduta della produttività, ne ha riguadagnati quattro (Figura 1).

Figura 1. Il legame inverso e anticiclico tra produttività del lavoro e quota del lavoro nel reddito (numeri indice, I/2006=100)

Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali trimestrali

Non è difficile comprendere come questo meccanismo istituzionale che altera in modo “cieco” la distribuzione funzionale del reddito, senza coinvolgere la sfera della contrattazione collettiva, abbia esercitato nel lungo periodo, oltre agli effetti anticiclici di breve periodo, effetti strutturali perversi sulla crescita della produttività, proprio perché mina alla base l’incentivo alla cooperazione tra i partner sociali ai fini dello sviluppo della produttività (L.Tronti, The Italian Productivity Slowdown: The Role of the Bargaining Model, in “International Journal of Manpower”, vol. 31, no. 7, 2010, pp. 770-792).

Le idee uscite dal brainstorming della Sapienza si possono quindi riassumere in quattro punti: a) programmazione della produttività e crescita salariale reale in linea con essa, anche sulla base di un disegno di politica economica e di politica industriale di livello nazionale ed europeo; b) contrattazione di linee guida di riorganizzazione dei luoghi di lavoro (nuove tecnologie, organizzazione flessibile, rapporti di lavoro ad alta performance); c) contrattazione esplicita di un livello target della quota del lavoro nel reddito che contemperi la necessaria tutela del livello dei consumi con la ripresa degli investimenti; d) estensione della contrattazione decentrata, da ottenersi anzitutto con lo sviluppo della contrattazione territoriale (regionale, provinciale, di distretto), per consentire alla “contrattazione di produttività” di raggiungere le piccole imprese oggi escluse.

[1]