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Pari opportunità per uscire dalla crisi

La politica economica ha finora ignorato le disuguaglianze di genere ma misurare in ottica di genere sia le misure di rilancio che quelle di austerity ci aiuterebbe molto a uscire prima e meglio dalla situazione attuale

Il contributo femminile al reddito familiare si è dimostrato durante la crisi un elemento essenziale per il benessere relativo della famiglia e ha costituito un indispensabile ammortizzatore, anche se solo parziale, contro la perdita di reddito causata dalla crescente disoccupazione maschile. In questa situazione appare sempre più evidente il costo non solo per le donne, ma per l’intera società, del persistere di disuguaglianze di genere nonché del preponderante peso delle donne nelle forme di lavoro discontinuo e/o sommerso. È fondamentale tenere conto di questi aspetti nell’orientare le politiche sociali e del lavoro.

I paesi dell’Unione Europea hanno di fronte, in questa fase, due grandi sfide: riconoscere esplicitamente che è necessario monitorare e valutare il differente impatto su donne e uomini di ciascuna scelta politica adottata; scegliere misure, nello specifico, che incentivino e sostengano la ripresa tenendo conto della nuova realtà del mercato del lavoro, e del modo in cui vi si pongono donne, uomini, coppie e famiglie. Per porre le basi di tali politiche, vari interventi sono necessari, dalla revisione dei sistemi di sostegno al reddito individuale e/o familiare, del sistema dei congedi, parentali o altro, agli investimenti in infrastrutture sociali.1

La recessione ha reso evidente e ancora più impellente la necessità di riformare gli ammortizzatori sociali per la disoccupazione, con misure che non comportino necessariamente un incremento di spesa. Le opzioni spaziano dall’introduzione di un assegno fisso universale, per ridurre le disparità di trattamento tra uomini a donne, fino a misure specifiche di riequilibrio tra il lavoro retribuito e quello di cura.2 Sono tuttavia gli investimenti sociali l’area cruciale d’intervento: nell’ambito di un auspicato buon governo l’insieme delle infrastrutture sociali dovrebbe acquisire priorità rispetto a quelle fisiche. Oltre che a rafforzare il modello sociale europeo, questo tipo di investimenti si potrebbe dimostrare particolarmente efficace nel creare posti di lavoro. Di questo esistono già alcuni esempi: in paesi assai diversi come Sudafrica e Giappone l’impatto su occupazione e povertà di investimenti infrastrutturali di tipo tradizionale si è rivelato inferiore a quello di progetti di sostegno alla prima infanzia o al lavoro di cura.

Non va poi dimenticato che l’Italia guida la classifica della “baby recession” in Europa. Negli anni della crisi, si è annullato tutto il recupero di fecondità “guadagnato” dal 1995 al 2008. Il fenomeno è di lungo periodo: si fanno sempre meno figli e sempre più tardi. Ma oltre un certo limite il rinvio diventa una rinuncia, a volte inconsapevole, quasi sempre forzata.3

In questo contesto, i provvedimenti presi dal Governo Renzi, dal Jobs Act fino all’attuale Legge di Stabilità, non sembrano tener conto appieno del quadro prima delineato. Il Ddl di Stabilità prevede misure che si focalizzano su pensioni (part-time con contributi figurativi pieni, settima salvaguardia esodati ed estensione dell’Opzione Donna per tutto il 2015) e sgravi fiscali (in particolare, abolizione imposta sulla prima casa), senza minimamente prevedere, come già in passato, sistemi di bilancio di genere (gender budgeting) per valutare l’impatto delle principali iniziative politiche, compresi i cosiddetti progetti di stimolo alla ripresa e di revisione delle spese. In due articoli recentemente pubblicati su inGenere4 si è fornita una valutazione sintetica di alcuni di questi provvedimenti, che qui brevemente riassumiamo.

1. L’abolizione della Tasi sulla prima casa porterà a una riduzione del gettito fiscale pari a 3,8 miliardi di euro sul 2016. Si tratta di un taglio fiscale consistente, che riguarda circa 18 milioni di prime case i cui proprietari risparmieranno, in media, 204 euro l’anno ciascuno (stime Nomisma). È stato già sostenuto in varie analisi e articoli5 che l’effetto redistributivo della abolizione della Tasi è regressivo, cioè premia di più chi ha maggior ricchezza e reddito. Quanto alla redistribuzione per genere, i dati a livello nazionale non permettono di scendere nel dettaglio, ma basta ricordare che nella proprietà immobiliare il gender gap è molto meno profondo che in tanti altri indicatori: il numero totale di proprietari di abitazioni è pari a 12.904.632 uomini e 11.945.131 donne. Se si guarda al titolo di godimento dell’abitazione in cui si vive (le prime case), si ha che sono proprietari il 68,9% dei capofamiglia uomini e il 64% delle capofamiglia donne.

Più rilevante, per l’impatto di genere, è l’ossessione per la tutela della proprietà dell’abitazione che pervade anche questa manovra (come altre in passato): una visione della casa come regno indivisibile della famiglia. Sembra che si voglia ancorare ogni famiglia a una sua casa, ignorando le esigenze di mobilità che il mercato del lavoro oggi impone e che un numero crescente di giovani, alla ricerca di migliori opportunità, accetta. Preoccupa inoltre la ricaduta in termini di mancata copertura per altre tipologia di spesa, rilevanti in ottica di genere. I Comuni paventano un taglio di 300 milioni di euro, che andrebbe ad aggiungersi ai numerosi tagli già subìti negli ultimi anni. In assenza di un quadro chiaro sulle coperture, è intuibile la direzione di un eventuale taglio dei servizi diretti, o di un rincaro delle loro tariffe: trattandosi spesso di prestazioni che vanno a incidere sulle attività di cura e gestione familiare (dai nidi ai tempi lunghi delle scuole, dai trasporti all’assistenza agli anziani), diventano veicolo di una pericolosa incentivazione del lavoro non retribuito femminile.

2. Altrettanto pericolosi sono eventuali tagli alla sanità pubblica. Se la popolazione invecchia e le donne sono la maggioranza degli anziani, qualsiasi ridimensionamento delle risorse destinate alla sanità pubblica porta con sé un impatto di genere. Non solo, anche una mancata crescita di queste risorse, in presenza di un contemporaneo aumento dei fabbisogni, va nella stessa direzione. Le ricorrenti denunce sulla “malasanità” impediscono di vedere che la sanità pubblica italiana, nonostante tutto, ottiene risultati eccellenti e costa poco. La sanità pubblica italiana oggi costa circa 111 miliardi, cioè il 7% del Pil. Come spesa procapite si tratta di 1.867 euro l’anno (2012). Se la confrontiamo con quella degli altri paesi europei non è molto, il 25% in meno della Francia, il 33% in meno della Germania (si veda il paragrafo “Salute”, in questa stessa sezione del Rapporto).

Sulla base di quanto appena scritto si possono ricavare alcune rilevanti e urgenti indicazioni per i decisori, i quali dovrebbero innanzitutto:

1. Monitorare attentamente il rischio che il consolidamento fiscale eroda in modo significativo le misure di welfare e limiti gli investimenti sociali. Come mostra l’esperienza di Austria e Gran Bretagna, la prescrizione legale che impone che le politiche siano vagliate ex ante da una prospettiva di genere potrebbe non bastare.

2. Incanalare la spesa sociale in modo da privilegiare i servizi di qualità rispetto ai sussidi economici per assicurare un impatto distributivo equo dei programmi di austerità e alleviare il carico del lavoro di cura delle donne.

3. Convogliare i fondi finalizzati alla ripresa verso le infrastrutture sociali e di cura, e non solamente verso quelle fisiche. Ad esempio, investire in asili nido, la cui importanza non ha bisogno di essere sottolineata. Uno studio recente dimostra che si tratterebbe di un investimento che si “paga da sé” soprattutto grazie all’occupazione che crea: in forma diretta poiché occorre assumere personale educativo ed ausiliare per prendere in carico un maggior numero di bimbi, e in forma indiretta perché alleggerire l’impegno di cura dei genitori significa permettere ad alcuni di accettare un lavoro.6

La politica economica ha finora ignorato le disuguaglianze di genere e potrebbe tendere a ignorarle ancora di più oggi, considerando l’occuparsene come un lusso da tempi prosperi e non di crisi. Non è così, e misurare in ottica di genere sia le misure di rilancio che quelle di austerity ci aiuterebbe molto a uscire prima e meglio dalla situazione attuale.

Le proposte di Sbilanciamoci!

Equa ripartizione del lavoro di cura

Occorre introdurre incentivi a una più equa divisione del lavoro domestico tra uomini e donne. Interventi cruciali in questa direzione riguardano i congedi parentali. In una proposta di legge firmata da Valeria Fedeli e Titti Di Salvo (e relativo emendamento alla Legge di Stabilità) è proposto per i padri un congedo parentale obbligatorio di quindici giorni. Un congedo da prendere in contemporanea alla madre nel primo mese dopo il parto e che sarà retribuito dall’Inps al 100% dello stipendio. Il congedo ai padri aiuta a promuovere la cultura della condivisione della cura dei figli, delle responsabilità e anche dei diritti tra madri e padri.7

Costo: 500 milioni di euro

Per un assegno di maternità universale

Il 55% delle donne italiane sotto i 30 anni e il 40% delle donne sotto i 40 anni non accede all’indennità in caso di gravidanza. Nella legge di Bilancio 2016 depositata in Parlamento è previsto uno stanziamento aggiuntivo per il sostegno alla maternità e alla paternità insufficiente, pari a 42,9 milioni, che porta questo capitolo di spesa a 232,4 milioni nel 2016. Proponiamo di assicurare un assegno di maternità universale per cinque mesi, pari al 150% della pensione sociale, indipendente dalla condizione lavorativa, a carico della fiscalità generale prevedendo uno stanziamento aggiuntivo di 900 milioni di euro.

Costo: 900 milioni di euro

Nuovi centri antiviolenza

Si propone di portare lo stanziamento previsto da 9,1 a 59,1 milioni di euro per la costruzione di 130 nuovi centri antiviolenza in tutte le Regioni, avviando, con l’Associazione nazionale dei centri antiviolenza, una pianificazione della formazione degli operatori e delle operatrici che entrano in contatto con episodi di violenza di genere e una campagna di sensibilizzazione e prevenzione nel mondo della scuola.

Costo: 50 milioni di euro

1 Cfr. Corsi, M., “Towards a Pink New Deal”, 2014, http://www.feps-europe.eu/assets/28010c58-21d5-4bc8-ace8-9cb464cd2622/marcella-corsipdf.pdf

2 Cfr. Baldini M., Torricelli, C., Urzì Brancati, M. C., “Family ties: occupational responses to cope with a household income shock”, CEFIN Working Papers, no. 45, April 2014.

3 Del fenomeno scrive Roberta Carlini nel suo nuovo libro Come siamo cambiati (Laterza), nel capitolo dedicato al tema “Meno figli per tutte”.

4 Cfr. Carlini, R., Rosselli, A., “Tasi ‘dolce’ Tasi. Chi risparmia davvero sulla prima casa”, 29 ottobre 2015; Gasbarrone M., “Sanità, non c’è bisogno di tagliare”, 29 ottobre 2015.

5 Cfr. Carlini, R., “Chi guadagna dall’abolizione delle tasse sulla prima casa”, Internazionale, 26 agosto 2015; Fubini, F., “Tasi, i conti sull’abolizione”, Corriere della Sera, 8 settembre 2015.

6 Cfr. Bettio, F., Gentili E., “Possiamo permetterci lo standard europeo per l’offerta di asili nido? Una simulazione di sostenibilità finanziaria”, Fondazione Giacomo Brodolini, Roma 2015.

7 Cfr. il dossier di inGenere su “I congedi di paternità”, disponibile all’indirizzo http://www.ingenere.it/dossier/i-congedi-di-paternità
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