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Non passa lo straniero?

Caso Parmalat, Tremonti alza tardive difese contro l’assalto francese alle imprese italiane. Barricate di carta, che non possono certo arginare una crisi di sistema. Né serve affidare la difesa dell’italianità a campioni italiani poco convinti o a banche che già a stento riescono a fare il loro mestiere

“…è un problema di sistema… che certo non si può pensare di cambiare per legge…”Giuseppe Berta Il quadro generaleCome cambiano le cose nel tempo! Negli anni ottanta, ad un certo punto, i media francesi erano pieni di commenti sorpresi ed ammirati dall’assalto di quelli che essi chiamavano i “condottieri” italiani (da De Benedetti, ad Agnelli, a Gardini, ecc.) alle grandi imprese transalpine e di qualche altro paese dei dintorni. Le gesta degli imprenditori nostrani conquistarono per qualche tempo anche le prime pagine dei settimanali.

Sappiamo peraltro che quell’assalto si tramutò presto in una debacle; e questo non tanto per la resistenza dei francesi e degli altri, che pure si manifestò in qualche forma, ma soprattutto per le debolezze degli italiani, per la loro scarsa conoscenza dei luoghi e la pessima preparazione tecnica dei dossier, per l’insufficiente strategia di alleanze messa in campo con i locali, nonché per lo scarso e maldestro supporto che fu loro a suo tempo offerto dal nostro governo.

Oggi le parti appaiono totalmente rovesciate e i capitali francesi stanno da qualche tempo tentando, con risultati molto vari da caso a caso, l’assalto ad alcune delle nostre imprese anche tra le più importanti – peraltro, di quest’ultime non ne sono rimaste molte sulla piazza.

Nel nostro viaggio attraverso il mondo delle grandi imprese italiane, che si è svolto per molte puntate nei mesi scorsi su questo stesso sito, abbiamo documentato la debolezza strutturale del nostro sistema di grandi imprese, i cui mali sono da attribuire a cause complesse, nella cui lista rientrano contemporaneamente la debolezza strutturale, manageriale e finanziaria, della nostra imprenditoria, la scarsa capacità di sostegno del nostro sistema finanziario, le scelte spesso sciagurate dei poteri pubblici.

In particolare, i nostri imprenditori non hanno spesso le risorse necessarie alla bisogna e quando le possiedono le utilizzano molto di frequente avventurandosi, anche per mancanza di visione, in processi di finanziarizzazione anche bizzarri. Per altro verso, molti di essi tendono ad abbandonare o a rendere marginali nel loro portafoglio di business quelli più rischiosi, più aperti al mercato e “concorrenziali”, per concentrare la loro attenzione su quelli che poggiano semplicemente sulle concessioni pubbliche. Così, ad esempio, Benetton è stato surclassato nel suo mercato originario da concorrenti più capaci e competenti, da Zara ad H&M – che oggi fatturano cinque o sei volte quello che riesce a vendere l’impresa nostrana – ed allora esso si è buttato sulle autostrade, le stazioni e gli aeroporti, trovando delle sponde amiche a livello politico.

Lo scarso entusiasmo dell’imprenditoria italiana a entrare nei giochi più impegnativi può essere mostrato con molti altri esempi. Prendiamo il caso della moda e dei settori correlati, uno dei pochi nel quali abbiamo sviluppato nel tempo una rilevante credibilità sui mercati internazionali. In questi ultimi anni abbiamo perso uno ad uno marchi come Fendi, Gucci, Bottega Veneta, Ferrè, Valentino ed ora Bulgari, senza che nessun imprenditore italiano abbia trovato la voglia di intervenire in qualche modo.

Invano l’amministratore delegato di Bulgari, secondo le sue stesse dichiarazioni, ha cercato sino a ieri una qualche sponda italiana cui appoggiarsi. Così, non gli è rimasto che cedere al nemico un business molto interessante ma che non poteva ormai reggere, con le sue dimensioni e le sue risorse, un mercato sempre più difficile. Certo possiamo ancora contare su aziende come Armani e Prada ma, mentre tali imprese non hanno nessuna voglia ed anche probabilmente nessuna capacità di porsi come poli di aggregazione per un gruppo italiano del lusso, per quanto riguarda la prima impresa citata si susseguono da tempo le voci di una vendita delle attività, mentre la seconda ha deciso ad andare a quotarsi alla borsa di Hong Kong, dopo ripetuti tentativi falliti fatti presso quella di Milano.

Il caso francese appare nel tempo come molto diverso da quello del nostro paese.

Si può dire che ancora nei primi anni sessanta del Novecento la Francia possedeva, come l’Italia, relativamente poche grandi imprese e per lo più deboli. Ma da allora, mentre la nostra situazione si aggravava con il tempo, quella transalpina migliorava costantemente. Le stesse imprese, il sistema finanziario locale, nonché i pubblici poteri hanno portato avanti un processo fortemente pianificato di crescita dimensionale, internazionalizzazione, rafforzamento economico e finanziario, del sistema; così la situazione odierna vede diverse decine di imprese di quel paese in grado di competere dignitosamente a livello mondiale e di frequente a porsi come protagoniste di prima linea nei loro settori di appartenenza.

Come è stato di recente sottolineato da qualche parte (Giannini, 2011) non possiamo ora fare veramente argine all’offensiva economica dei nostri vicini senza avere dietro un sistema-paese che funzioni. In questo senso, la mossa di Tremonti di varare una legislazione anti-scalate appare “inutile, velleitaria, tardiva” (Giannini, 2011).

Il caso Parmalat

Sono molti i casi che in queste settimane sono all’onore delle cronache. A parte quello di Alitalia, sulle cui vicende e sullo sviluppo dei rapporti con Air France è apparso su questo stesso sito molto recentemente un interessante aggiornamento, ricordiamo tra i più importanti quelli relativi alla Parmalat, alla Edison e al gruppo Ligresti. Ma per economia di spazio ci concentriamo sul solo caso Parmalat.

Enrico Bondi ha svolto a suo tempo un lavoro egregio riuscendo a salvare e a ricollocare sul mercato la società parmense; ma ognuno ha la sua stagione e il commissario, molto bravo a farsi dare indietro dei soldi dalle banche che a suo tempo avevano partecipato, in un modo o nell’altro, alla truffa, non è riuscito invece a mettere a punto una nuova strategia di sviluppo dell’azienda. E puntando anche su questa debolezza che i fondi esteri e poi la Lacteos brasiliana e la Lactalis francese sono partite all’assalto. Ed è proprio la società transalpina, che ha messo insieme il 29% del capitale della società di Parma, che sta riuscendo paradossalmente nell’impresa di aggregare un grande polo italiano dell’alimentare, senza che si sia manifestata nel tempo alcuna alternativa nazionale; essa aveva in effetti conquistato a suo tempo, prima della Parmalat, marchi storici come la Galbani, la Invernizzi, la Cademartori, la Locatelli.

La società fattura già per proprio conto, a livello aggregato, 8,5 miliardi di euro all’anno e con la nuova acquisizione dovrebbe arrivare intorno ai 13 miliardi, dimensione a questo punto di tutto rispetto per partecipare in maniera adeguata ai giochi nel settore lattiero-caseario a livello mondiale.

Nel caso Parmalat si è parlato comunque, per salvaguardarne l’italianità, di un possibile intervento imprenditoriale di Granarolo e della Ferrero.

Ora, per quanto riguarda la prima società, si tratta di un’impresa i cui processi di crescita vanno certamente accompagnati con molta simpatia; più in generale, lo sviluppo dimensionale in atto di un certo numero di aziende facenti parte del mondo cooperativo, quale è la Granarolo, è un fenomeno certamente molto positivo e che arricchisce il panorama imprenditoriale italiano. Ma la società appare di dimensioni nettamente inferiori a quelle di Parmalat, con bilanci che non hanno sostanzialmente mai presentato risultati economici di rilievo, senza un euro in cassa e con conoscenze e capacità manageriali che sembrano inferiori alle necessità proprie di un tale, impegnativo, compito.

Per quanto riguarda la Ferrero, si tratta invece di una società certamente piena di soldi – il capostipite della famiglia è tra l’altro l’italiano più ricco del mondo secondo le statistiche di Forbes –, con bilanci traboccanti di utili e con competenze e capacità che appaiono adeguate alla bisogna. Non ci sarebbero grandi sovrapposizioni di prodotti e di reti di vendita, anzi si può rilevare una certa complementarietà di attività, persino delle potenziali sinergie; si permetterebbe ad un’impresa in espansione equilibrata da molto tempo di crescere ulteriormente e di raggiungere delle dimensioni di livello superiore.

Ma ricordiamoci peraltro che appare lecito dubitare della reale italianità della società. Il quartier generale si trova da molto tempo in Lussemburgo, dove è domiciliata la holding Ferrero International, cui fanno capo tutte le società del gruppo; la direzione commerciale e quella delle varie unità sparse per il mondo sono sempre collocate nel principato, mentre l’anziano padrone dirige gli affari da Montecarlo. Anche i soldi dell’azienda sembrano vagare tra Lussemburgo e Monaco. Tutte informazioni, queste, che sembra difficile possano contribuire ad alimentare il nostro orgoglio nazionale e a farci parlare di difesa dell’italianità.

Bisogna peraltro ricordare come la società di Alba abbia già provato in un paio di casi – con l’affare Sme qualche decennio fa e con la Cadbury britannica nel 2009-2010 –, a tentare il colpo, ma in ambedue i casi la tardività dell’intervento, nonché le incertezze e i dubbi di fronte ai rischi dell’impresa, hanno contribuito a far fallire i due tentativi. Anche in questo caso sembra ripetersi lo stesso scenario. Peraltro, al momento della stesura di questo articolo, sembrava che Ferrero volesse cercare in qualche modo di restare nella partita anche attraverso un accordo con Lactalis. Vedremo.

Il ruolo delle banche

Nel caso di un intervento di Granarolo, si è parlato del possibile coinvolgimento nell’affare di una grande banca, Intesa Sanpaolo, mentre in quello relativo all’affare Ligresti, gruppo a sua volta concupito dai francesi di Groupama, invece, si è manifestata e si va concretizzando una partecipazione di molto rilievo di Unicredit al capitale.

Si tratta di mosse condivisibili? Sia lecito esprimere qualche dubbio.

Le grandi banche italiane hanno soprattutto il problema di fare bene il loro mestiere istituzionale, cosa che non sempre gli riesce. In questo momento esse sono alle prese con la ricerca di quadratura del cerchio per stare dietro a Basilea III – saranno richiesti molti miliardi di euro per adeguare i loro mezzi propri alle necessità e non si sa dove trovarli – e ai problemi di bilancio, di fronte, tra l’altro alla crescita delle insolvenze della loro clientela e ai ridotti margini di intermediazione che si riescono a spuntare nel settore in un periodo di bassi tassi di interesse, mentre molte piccole e medie imprese soffrono inoltre per la mancanza di credito. Non è il loro mestiere quello di contribuire sistematicamente a salvare delle imprese partecipando al loro capitale e alla loro gestione, come si profila ormai con quasi certezza in particolare nel caso delle società del gruppo Ligresti.

Tra l’altro, curiosa coincidenza, è tornato alla ribalta in queste settimane il caso del salvataggio della finanziaria di Zalesky, laddove si apprende che le due banche sopra ricordate hanno fornito incredibilmente negli scorsi anni crediti a tale signore e alle sue aziende per circa 2,5 miliardi di euro – altri istituti ne hanno dato altri 500 milioni –, per una parte consistente senza garanzie. Non si capisce, o si capisce fin troppo bene, quali possano essere i criteri che hanno portato questi istituti a intervenire in tale caso come in quello del gruppo Ligresti. Ma certamente non lo hanno fatto in nome dell’italianità o del sostegno alle imprese meritevoli.

Conclusioni

Ora dunque il governo, su proposta di Tremonti, ha approvato delle linee di difesa dall’assalto transalpino.

Non vogliamo discutere del possibile conflitto di tali norme con quelle europee. Vogliamo invece sottolineare come, alla fine, si possa però scommettere che gli sforzi del commercialista padano – visti, nella sostanza, la situazione penosa del sistema imprenditoriale italiano, almeno per quanto riguarda le strutture di maggiori dimensioni, nonché i limitati orizzonti “ideologici” del governo in carica, nonché gli interessi personali di qualche suo autorevole membro e comunque l’incapacità di darsi una strategia credibile di lungo termine sul fronte economico –, non saranno votati a grandi successi; si potrà arrivare ad un blocco, più o meno temporaneo, di qualcuna delle operazioni programmate dal capitale francese, ma non ci sono, allo stato attuale, i presupposti per affrontare nel modo corretto e complessivamente il problema, come abbiamo già cercato di sottolineare nella prima parte di questo scritto.

Testo citato nell’articoloGiannini M., Stop di Tremonti allo shopping francese, La Repubblica, 19 marzo 2011