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Noi orfani di Steve Jobs

Secondo appuntamento con l’iniziativa di Sbilanciamoci. Un diario di bordo da un corso di formazione per start-up. Dietro la maschera della meritocrazia, il miraggio del successo passa attraverso l’inferno di una messa in vendita di buone idee per applicazioni quasi sempre inutili

Sono le quattro di notte nell’ex base Nato al limitare della faggeta di Allumiere sui monti della Tolfa, e nella sala attrezzata per il proiettore siamo seduti su comode poltroncine con le Red Bull, una teiera e dei biscotti. Vicino a noi il nostro graphic designer al computer cura gli ultimi dettagli della presentazione che domani proietteremo davanti ad una giuria di esperti di startup e finanziatori. Le immagini accompagneranno il discorso del mio compagno di team che si cimenterà in quello che viene chiamato il «pitch»: un discorso di quattro o sette minuti che mira ad attirare l’attenzione degli investitori sul tuo prodotto. In particolare, nel caso delle startup, imprese nuove che introducono una soluzione di forte originalità e che quindi a fronte di un alto rischio di fallimento hanno le potenzialità di crescere vertiginosamente, l’attenzione degli investitori è concentrata sulla «scalabilità del modello di business» – appunto, la prospettiva di una crescita che permetta dopo una manciata d’anni di vendere le azioni con ampi margini di guadagno.

«Ma come, non hai mai visto il pitch di Steve Jobs per il primo iPhone?!». Le ore della notte si sfilacciano, e dentro le smagliature crescono le visualizzazioni dei video su YouTube. E siccome siamo ad un campo pensato per promuovere la cultura imprenditoriale tra i giovani, un campo dove Apple e Facebook vengono nominati più di quanto Dio venga invocato nei ritiri di un gruppo parrocchiale, i video di Steve Jobs sono il genere di video che si riguarda insieme – o, nel mio caso, si vede per la prima volta. «A widescreen iPod with touch controls, a revolutionary mobile phone, a breakthrough Internet communication device», dice Jobs presentando l’iPhone al mondo, e poi ripete questa descrizione tre volte, che si moltiplicano come un’eco nella nostra stanza dai soffitti alti con travi di legno, perché gli altri ragazzi lo sanno a memoria, e lo ripetono anche loro.

Prigionieri del successo Il pubblico di Jobs applaude e fischia per l’entusiasmo. «Non siete in imbarazzo per loro? Non vi sembra umiliante strillare davanti a qualcuno che vi vuole vendere un prodotto?», chiedo io. No, macché. Forse non ho capito la portata rivoluzionaria di quello che sta succedendo su quel palco, insistono.

Che io non capisca molte delle cose che ho intorno è ormai, dopo quattro giorni di campo, piuttosto chiaro anche a me: ho un Mac e un iPhone e non ho mai preso sul serio la leggenda del cui fascino subisco l’onda lunga; rabbrividisco al racconto dei loro genitori che strisciano il codice a barre di ogni singolo detersivo e vasetto di yogurt estratti dalla busta della spesa con lo smartphone, in un baratto di informazioni sulla propria dispensa in cambio di premi, ma lascio i miei dati leggera ad ogni connessione wifi gratis mi capiti di incontrare. In questo senso, sono forse la più sprovveduta dei venti fra ragazze e ragazzi, dai diciannove ai trentuno anni, selezionati per partecipare all’InnovAction Camp, la cui formula prevede un’alternanza di lezioni frontali su economia, innovazione e mercato delle startup ed intenso lavoro di gruppo. Il campo, della durata di cinque giorni, è organizzato da InnovAction Lab, associazione non profit che si propone di mettere in contatto gli studenti con il mondo degli investimenti privati, e si svolge in una struttura dell’università Roma Tre; tutto è finanziato, con tanto di vitto e alloggio, dai supporter JP Morgan Chase Foundation, Microsoft e Fondazione Cariplo insieme con il programma «Startup Revolutionary Road», e World Wide Rome. Dal campo e della sua versione lunga, il laboratorio di tre mesi, sono uscite, a partire dalla fondazione nel 2011, trentaquattro startup, che hanno ricevuto in totale circa quattro milioni di euro di investimenti privati.

Le istruzioni che abbiamo ricevuto per la formazione dei gruppi che lavoreranno ognuno su un’idea di startup recitano: almeno una ragazza, almeno un ingegnere informatico, non più di due economisti, per un totale di quattro membri. La sera del primo giorno, dopo un pomeriggio di esercizi preparatori al rugby propedeutici al team building , uno di noi ha collegato il proprio computer al proiettore e in un file Excel ha inserito le nostre competenze che a turno gli dettavamo. Sul muro comparivano man mano «web design», «programmazione», «quantitative analysis», «social media marketing», «marketing», «stock research analysis», «grafica», «management». Alcuni hanno aggiunto: «Ho una passione per il food», «Sono appassionato di wine».

Io ho ventun anni, studio antropologia culturale e quando arriva il mio turno fingo sicurezza e dico: «Skill 1: metti… “metodo etnografico», mentre per lo skill 2: metti “scrittura”». Fra i ragazzi c’è chi si deve ancora laureare, c’è chi era arrivato a guadagnare seimila euro al mese gestendo le puntate dei giocatori di poker online, prima che il portale Venice Poker fallisse, e c’è chi ha già la propria startup e conosce bene l’ecosistema italiano a queste collegato. Fra questi ultimi, due ragazzi che si sono appena conosciuti e insieme hanno già partorito un’idea che ci propongono: creare una piattaforma dove trovare graphic designer che migliorino la veste grafica e l’organizzazione delle tue slide.

A cena avevo parlato con una ragazza che stava sviluppando una piattaforma dove geolocalizzare dal proprio smartphone tutto ciò che avrebbe interessato chi ricercava un’alta qualità della vita – cibo a chilometro zero, spazi di coworking, affitto di biciclette, luoghi dove fare sport. Le avevo proposto di metterci nello stesso gruppo e sviluppare, per i giorni del Camp, squisitamente a scopo di esercitazione, una sorta di appendice al suo progetto: qualcosa che avesse a che fare con i quartieri e meno con il turismo – una sorta di guida a uso interno degli abitanti per i luoghi di interesse, simbolici, della microstoria della zona; oppure un sistema per collegare virtualmente le librerie indipendenti, in un catalogo disponibile su un’app, comprensivo di riviste letterarie straniere, troppo costose da ordinare singolarmente dall’Italia. Le avevo parlato di «Lìberos» – l’organizzazione che in Sardegna ha messo in rete case editrici, librerie indipendenti, biblioteche, scrittrici e scrittori – e di «Port Review», l’edicola online di riviste digitali. Riflettevo anche che rendere tecnologici gli scambi di un quartiere non li rende necessariamente migliori, che in molti casi, senza adeguate discussioni e momenti di autorganizzazione e riflessione, i servizi di messa in rete dei vicini finiscono per diventare casse di risonanza per le vecchissime recriminazioni: avevo letto per esempio di persone senza fissa dimora prese di mira tramite sofisticati algoritmi di vicinato 2.0. La ragazza era stata molto gentile, ed io piuttosto insistente, ma era ovvio che ciò che le proponevo non le interessava: «io non faccio questa cosa ideologicamente », si era affrettata a puntualizzare. Aveva anche avuto l’eleganza di non farmi notare che nei miei progetti velleitari non c’era sicuramente l’ombra di un business plan scalabile.

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Avevo pensato allora che confondere cose che sentivo vicine con modelli di business che sentivo lontani mi avrebbe creato confusione – che sarebbe stato più chiaro a questo punto lavorare sulla piattaforma per ritoccare le slide proposta dai due ragazzi, piuttosto che finire per progettare a tavolino una gentrificazione.

Sono tre giorni e mezzo quindi che io, Filippo, Francesco e Massimo lavoriamo sul progetto della startup delle slide, e prepariamo il pitch secondo lo «schema standard» che ci viene illustrato con una lezione apposita.

Filippo, che lavora con le stampanti 3D, ha studiato grafica al politecnico di Torino, e ci mette in contatto con altri grafici per capire le tariffe alle quali sarebbero disposti a lavorare. Massimo e Francesco cercano i potenziali competitori, per esempio siti che disegnano i loghi per le aziende, e li studiano per farsi un’idea del modello di business di ciascuno di loro. Poi considerano le opzioni per il nostro modello, discutono sull’entità dell’investimento iniziale di cui avremmo bisogno e buttano giù una tabella stimando i tempi di lavoro da qui a un anno. Cercano di coinvolgermi in tutto questo, ma hanno troppa esperienza perché io possa dare un contributo significativo.

Massimo, infatti, sta per lanciare un portale sui cui sarà possibile recarsi per comprare online oggetti per le ong; la sua startup, che ha progettato il portale, guadagnerebbe prendendo una percentuale sugli acquisti agli store online ai quali reindirizza. Ha frequentato un master presso HFarm, un acceleratore di startup a Roncade in provincia di Treviso, grazie al quale è entrato in contatto con persone importanti per lo sviluppo della sua idea come il cofondatore di Banca Etica. Francesco invece è di Catania, dove Telecom ha una delle sedi di «Working Capital», il programma di accelerazione di startup di Telecom Italia che mette a disposizione dei ragazzi una rete di esperti e degli spazi fisici accoglienti e tecnologici dove lavorare in gruppo alle proprie idee. È qui che Francesco ha conosciuto i ragazzi con cui ha fondato «Ganiza», l’app che gestisce il sistema di votazioni con cui i gruppi di amici numerosi scelgono l’attività con cui trascorrere la serata (la startup guadagna chiedendo una fee a ristoranti e locali ogniqualvolta questi vengano presi in considerazione durante la votazione). Quando è arrivato il primo finanziamento di venticinquemila euro aveva da poco deciso, contro il parere dei suoi genitori, di rinunciare al master in Business in Svizzera per il quale aveva passato le selezioni.

Tornando alla piattaforma delle slide, dunque, io mi limito a dire che se fossi un cliente mi piacerebbe vedere bene chi è il designer a cui affido il lavoro, che mi piacerebbe vederne il nome e il sito internet, e magari anche i suoi social network. Ma questa opzione, mi fanno notare i compagni, farebbe sorgere numerose controindicazioni, tra cui l’aumento del rischio di «cheating», cioè che cliente e grafico si incontrino al di fuori della piattaforma, sottraendosi così dalla fee del 10% che tratteniamo sul pagamento del grafico. Si decide quindi di optare per il meccanismo del «contest»: il cliente carica le sue slide, i grafici che vogliono candidarsi per il lavoro ne modificheranno una, e da queste prove il cliente potrà scegliere a chi affidare e quindi retribuire il lavoro completo.

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Allora, siccome ho detto loro che scrivo, pensano che almeno io sia brava a scegliere il nome dell’impresa: mi applico un po’, ma mi escono solo giochi di parole un po’ indiretti e qualcun altro esce fuori con il nome definitivo: «ReSlide.it». Infine, stabiliamo che sarà Massimo a parlare durante il pitch.

Steve Jobs riusciva a non sembrare ridicolo durante i suoi pitch: aveva trasferito l’umiliazione di chi ha bisogno sul suo pubblico di consumatori desideranti. I nostri pitch però trattengono ancora l’umiliazione su noi che vendiamo – anzi, più propriamente, che ci vendiamo , presentandoci come un team su cui vale la pena investire. Infatti, nei pitch cosiddetti «di investimento», a differenza di quanto accade nei pitch di vendita in cui ci si concentra sul prodotto da acquistare, a guadagnarsi la fiducia deve essere prima di tutto il team. Come esempio ci vengono citati a lezione dei ragazzi che poco tempo fa hanno progettato un social network per camionisti. A nessuno importa di investire sui social network dei camionisti, ma i ragazzi sono stati contattati dalla Sony, interessata alla tecnologia che avevano sviluppato per usare i social network senza toccare il telefono mentre si sta guidando.

Durante il campo tutti e cinque i team ripetono il loro pitch due volte per ricevere i feedback degli altri ragazzi ma soprattutto degli organizzatori, e poi una terza volta, l’ultimo giorno, davanti ad esperti invitati da fuori, alcuni dei quali possibili investitori.

Ecco come si apre il nostro pitch: «ReSlide.it è la prima piattaforma di crowdsourcing che mette in contatto i designer con chi ha la necessità di rendere le proprie presentazione memorabili. Ogni giorno liberi professionisti e aziende usano presentazioni per vendere i propri prodotti e le proprie idee, o in momenti cruciali per l’organizzazione interna dei propri dipendenti. Ci riescono? Microsoft stima che il 90% delle presentazioni annoia la sua audience… Qua entriamo in gioco noi: Reslide.it è la piattaforma web che in 72 ore e 129 euro riorganizza testi e immagini delle tue slide – i tuoi contenuti, finalmente veicolati con l’incisività e l’efficacia che meritano». Ecco gli altri team: uno vuole «cancellare la paura di tutti i bambini» vendendo agli ospedali degli astucci che coprano con dei disegni le siringhe dei vaccini; un altro ha capito che «si può vendere il cielo» e ha progettato un portale per il turismo astronomico; «ti sarà capitato di essere un turista insoddisfatto!» intima un altro ancora, che vuole sviluppare un’app per farti vivere le mete delle tue vacanze «come uno del luogo»; «tutti possono essere social media reporter!» gioisce infine il team che offre a pagamento copertura sui social media a certi eventi.

Le prime domande che ci si rivolge per incominciare a dare i feedback dopo ciascun pitch sono: «Qualcuno non ha capito cosa stanno facendo?», «Chi ci investirebbe?». A volte si alzano le mani. Poi altre mani alzate per chi vuole chiedere la parola e dare suggerimenti al team, al quale invece è imposta la regola di non poter rispondere alle critiche, di dover solo ascoltare e prendere appunti.

Carla, fra noi ragazzi, è quella che muove le critiche più puntuali: sembra allo stesso tempo un’editor e una regista che parla con i suoi attori. A noi dice cose come: «nella presentazione avrei voluto vederti più freddo, distaccato», «come fai a inglobare i designer nella piattaforma? Questa è una cosa che avrei voluto sentirti dire» e «secondo me il tempo è un driver sufficiente, mentre la voce “qualità delle slide” non mi piace». Le faccio i complimenti, e lei mi risponde che le piacerebbe ricevere feedback con lo stesso rigore che mette lei a formularli. Rimango zitta.

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I feedback degli organizzatori vogliono essere spietati, comunicati con degli interventi in cui la volgarità viene percepita da tutti come franchezza. I ragazzi in realtà ne sono esaltati e finiscono per cercare feedback sempre più duri: vogliono veramente capire come fare, nutrono fiducia negli organizzatori e riconoscono loro più autorità di quanta io abbia mai visto riconoscere ad uno dei miei professori all’università.

Immaginiamo un continuum dei discorsi in pubblico: ad un estremo i pitch, totalmente rivolti verso l’ascoltatore – chiari, omogenei, semplificati, pensati per non farti pensare, ogni minuto che ha alle spalle un’ora di preparazione – e dall’altro le lezioni dei miei professori di Lettere e Filosofia – in ritardo senza fornire scuse, con lezioni spesso improvvisate e sbrodolate, con interi segmenti uguali, cristallizzati in automatismi da una lezione all’altra, ma a volte complesse, come un regalo bellissimo ma molto difficile da scartare. Quasi in mezzo, ma più dalla parte dei pitch, possiamo collocare i seminari che seguiamo qui al campo.

Le lezioni sono una dimostrazione di fiducia illimitata nei procedimenti induttivi: ci vengono presentati continuamente degli esempi, e «Noi non vi diamo soluzioni, vi diamo problemi da risolvere», è uno degli slogan più ripetuti. Poi, liste di sette elementi «perché è stato calcolato come il massimo di elementi che il nostro ce vello riesce a ricordare in un elenco». Infine, apertura incredibile sulla propria esperienza: «Allora: io ho fatto startup di successo. I nostri investitori hanno fatto una caterva di soldi che voi ve li sognate», ma subito: «abbiamo anche fallito, bruciato soldi degli investitori».

Il designer del mio team rimane affascinato in particolare da due storie, che tirerà fuori spesso mentre lavoriamo o parliamo del più e del meno per spronarci ad essere ambiziosi e creativi. Una è una sorta di parabola dei talenti ambientata a Stanford: una professoressa dà a ciascun gruppo cinque dollari, chiedendo di farli fruttare il più possibile. C’è chi compra una pompa per le bici, offre controlli gratis e poi fa pagare un dollaro il servizio a chi si scopre avere le ruote sgonfie; così raccolgono velocemente cinquanta dollari, finché stabiliscono che la donazione sarà libera, e allora quadruplicano i ricavi e ne fanno duecento. Poi, c’è a chi viene in mente di vendere il quarto d’ora che spetterebbe al proprio gruppo per parlare davanti alla classe ad un’azienda: ne trova una disposta a pagare seicentocinquanta dollari per quindici minuti con degli studenti di Stanford.

La seconda storia è un mito di fondazione dell’ormai celebre «Airbnb», portale per l’affitto di case vacanza. I ragazzi della startup, ai primi passi, non riescono a trovare investitori disposti a conceder loro fiducia. Decidono allora di comprare pacchi di cereali, su cui stampano le facce di Obama e di McCain; siamo in campagna elettorale, e fuori dai comizi riescono a vendere queste scatole a cinquecento dollari, garantendo agli acquirenti che ne avrebbero devoluto la metà al candidato. «Non sappiamo con certezza come andrà la nostra startup, ma sappiamo vendere una scatola di cereali a cinquecento dollari», sembra abbiano detto poi ai loro investitori: non potevano dimostrare che il prodotto avrebbe funzionato, ma erano riusciti a dimostrare che loro erano le persone giuste.

I docenti sono sempre a disposizione, anche alle tre di notte. Rispondono gentilmente anche a me, che di solito esprimo perplessità. Ma se in risposta ai miei dubbi mi chiedono di sfilarmi gli occhiali, e avendo letto «Bulgari» mi raccontano l’edificante storia di Del Vecchio, da orfano a secondo uomo più ricco d’Italia, è solo perché ormai son capitata loro davanti al tavolo della cena; non sono poi particolarmente attaccati alla favola della meritocrazia, che come qualsiasi narrazione legata a dei valori non viene mai affrontata esplicitamente e sistematicamente in questi giorni.

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L’ultima notte, quella in cui abbiamo visto il video di Steve Jobs, andiamo a dormire alle cinque e ci diamo appuntamento alle nove. Il ragazzo che deve fare il discorso del nostro pitch si sveglia tardi, ci raggiunge e incomincia a provare nervosamente il discorso. Ha fame e gli porto un piatto di biscotti che tengo con la mano perché lui possa pescarne mentre ripete. Intanto gli altri due membri del team lo ascoltano e lo correggono, ma a lui continuano a sfuggire le parole. Lascio il piatto e vado a raccogliere dei denti di leone, che lego insieme con un filo di paglia. Infilo il mazzetto nel taschino della camicia Ralph Lauren del ragazzo che all’ultimo sostituirà quello designato per fare il pitch; lui però lo tira fuori subito perplesso, e io me lo riprendo.

Le mie parole per loro non sono efficaci, non suonano precise, solo ridondanti e pretenziose: «ok, ma ora non dobbiamo scrivere un libro», mi dicono quando propongo delle modifiche. E se non hanno effetto, non serve a niente che io le abbia scelte con cura, che a me suonino perfette. Vige un altro codice qui, il mio non vale, e d’un tratto mi prende una nostalgia fortissima, che non so se è nostalgia come quella che mi è presa in questi giorni di sentire musica dal vivo, o è solo nostalgia del potere che esercitavo su persone e cose quando le nominavo e queste mi rispondevano.