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Liberalizzare: perché per chi, e in che modo

In molte attività c’è l’esigenza di migliorare l’efficienza, ridurre i prezzi e i privilegi, ma gli interventi di liberalizzazione, da soli, non risolvono tutti i problemi

Liberalizzare è una parola magica – ripetuta molto da economisti, commentatori e Banca d’Italia, ma mai applicata dai governi (solo Bersani, da ministro, ha fatto qualcosa) – tornata ora al centro del dibattito politico.

Nell’attuale drammatica situazione del paese, il governo vuole intervenire legislativamente per liberalizzare alcune attività commerciali e l’esercizio di professioni, sperando che tale azione favorisca la ripresa dell’economia. La reazione contro tale progetto da parte di varie lobby, spesso sedicenti liberali e politicamente di destra, è stata virulenta. Perché?

Liberalizzare significa organizzare in modo differente il funzionamento dei mercati in cui avviene lo scambio di beni e servizi. I mercati non esistono senza un insieme di regole, procedure, strumenti operativi cui devono sottostare gli operatori; il lassez faire è una mera ideologia neoliberista inapplicabile nelle società organizzate. L’assetto dei mercati incide sullo scambio, sulla struttura dell’offerta e della domanda, sui prezzi e la formazione di eventuali “sacche” di privilegi. Mercati ben organizzati sono più efficienti e evitano ingiusti vantaggi che si riflettono in prezzi più elevati; viceversa, nei mercati inefficienti il valore attuale di extra profitti futuri è incorporato nel diritto a esercitare l’attività o la professione.

Il trasporto pubblico su base individuale (cioè quello dei taxi) è l’esempio più evidente di malfunzionamento di un mercato. Le restrizioni all’accesso portano al sottodimensionamento dell’offerta, alla fissazione di prezzi elevati, all’incorporazione dei maggiori profitti nel valore della licenza. Lo scarso sviluppo del servizio porta a sua volta al maggior utilizzo di auto private e di conseguenza alla congestione del traffico. Liberalizzare l’accesso all’offerta del servizio significherebbe incidere sugli interessi dei taxisti che guadagnerebbero di meno e vedrebbero ridursi gli abnormi valori della licenza, che riflettono gli extra-profitti futuri. Di qui le loro reazioni furibonde. Gli interessi della collettività sono opposti: con l’eliminazione delle restrizioni all’accesso il prezzo del servizio calerebbe e la circolazione delle auto sarebbe ridimensionata. Ma i benefici – minori prezzi, migliore mobilità, minor inquinamento urbano – e la loro distribuzione tra gruppi di cittadini non dipendono solo dalla bacchetta magica delle liberalizzazioni all’esercizio dell’attività, dipendono da un insieme di misure come le restrizioni al traffico di auto private, il ruolo dei taxi in progetti di mobilità sostenibile, etc. E i cambiamenti non dovrebbero comunque portare ad attività in cui si diffondano salari da fame, lavoro nero e condizioni di lavoro degradate.

Insomma, non si dovrebbe guardare – anche da parte dei “liberalizzatori” del Pd – alle liberalizzazioni in sé, ma si dovrebbe considerare l’insieme dei cambiamenti possibili e gli effetti che avrebbero, entrando nei dettagli di ciascun provvedimento. Ad esempio, le liberalizzazioni del sistema bancario e finanziario internazionale introdotte a partire dagli anni 80 hanno favorito l’assurda crescita delle attività finanziarie, creando le premesse per la crisi attuale. Viceversa – con riferimento ai provvedimenti proposti dal governo – la liberalizzazione della vendita dei farmaci di classe C avrebbe effetti largamente positivi sulla riduzione di prezzi anormalmente elevati rispetto ad altri paesi europei. Lo stesso nel caso delle pompe di carburante, su cui si è opposta la potente lobby dei petrolieri.

Per quanto riguarda le professioni – avvocati, architetti, etc. – c’è l’esigenza di assicurare una qualità adeguata dei servizi offerti ai cittadini, ma gli ordini professionali si sono trasformati sempre più in corporazioni che difendono i privilegi dei propri associati, scaricando peraltro le difficoltà sulle condizioni di lavoro dei più giovani e più precari. In questo caso, piuttosto che liberalizzare, andrebbe ripensata l’organizzazione dei servizi professionali per meglio tutelare la collettività, anche attraverso un ruolo più incisivo dell’amministrazione pubblica.

In molte attività c’è sicuramente l’esigenza di migliorare l’efficienza, ridurre i prezzi e i privilegi, ma non si può pensare che interventi di liberalizzazione, da soli, risolvano tutti i problemi. E soprattutto, non ci si può illudere che siano misure come queste a creare le condizioni per una ripresa dell’economia dall’attuale recessione.

articolo apparso su il manifesto il 17 dicembre 2011