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La fine è sempre la fine

Un viaggio letterario nel mondo degli esclusi, dove relazioni e psiche stanno mutando, geneticamente, verso uno spaesamento che fa assomigliare i personaggi che ci circondano o le facce che vediamo allo specchio, a dei nuovi miserabili. Il primo dei racconti dei nostri speciali estivi

L’uomo è steso per lungo, fuori la porta della farmacia. La farmacia è chiusa perché è domenica. Le domeniche sono giorni di interregno. C’è una sporta aperta, abbandonata poco più in là, è dell’uomo, ne son sicura. Forse contiene la bottiglia. Solite storie. Vorrei sbadigliare. Invece mi fa impressione. Un liquido scivola verso il tombino. Non so cosa sia, posso immaginare. Salgo in auto, vedo la gazzella della polizia, un agente scende di corsa. Si ferma di colpo, ci pensa magari, che faccio? Scuoterlo con un piede, con una mano, tirarlo su? Un vero rivoluzionario – non parlo dell’agente – un matto, lo avrebbe sollevato, baciato, abbracciato, col rischio di guadagnarsi uno sputo al centro della faccia. Io sono matta. No, non l’avrei mai fatto. La mia carità non serve a nulla. Non è carità, è stucchevolezza, debolezza, mani da signorina. Scommetto che è un polacco. “Nie ma, kurwa” gli urla un tale. Sono connazionali. Si sono trovati davanti a un supermercato. Trovati, scovati. Litigano per cose misere, pochi spiccioli, un cartone di vino, una ciotola di rognosi centesimi lasciati da qualche avventore distratto, impermalito dal cattivo odore. È andata così, scommetto. Sono animali, sono mau mau, dicono qui. Tutte le volte ne trovo qualcuno e tutte le volte se le danno di santa ragione. Uomini impossibili. Esperimenti empirici mal riusciti, che cacchio. Devo chiamarli mau mau. Come i ratti di Mazzarruna, sapete qualcosa di deteriore, Mazzarruna è un Hyde Park. Ho i brividi. Ho la nausea. L’uomo disteso è pietoso, un avventore passa e scuote la testa e io capisco. L’avventore mi guarda con sdegno, direi amico che sì sono sempre loro, cani bastardi senza padrone, pensa agli africani, amico, guardiamoci le spalle.

***

Conoscevo un tale di Kielce, doveva difendere sempre un’idea, una kurwa, una donna di strada, e finire coi coltelli o con le mani e poi in questura o peggio in guardiola, al pronto soccorso. Mi prese un colpo, un giorno, questo tale di Kielce aveva il volto pesto, il naso rotto, era spaventoso. «Torno a parco e lo mazzo» , tagli sua testa, cianciava steso lungo e secco in barella. Lo aveva pestato uno di Strachowice. Alzava il pugno contro un poveraccio, un austriaco vestito di cenci che dimorava nelle grotte, questo tipo di Kielce. Prima erano extracomunitari, erano merda per noi quaggiù, ammettiamolo, ci stavano sul cavolo questi cazzo di polacchi. E adesso fanno la guerra ai neri, e noi dobbiamo capire da che parte stare, giocarcela. Perché è sempre una questione di scelte, bianchi o neri, fascisti o comunisti. Buoni o cattivi. Tolleranti merdosi o inarrestabili teste rasate. Io sto coi neri allora, quelli chiedono e basta, al posto dei rom e degli slavi e non bevono dai cartoni, non ruttano, non se le danno di santa ragione. I connazionali di questo tipo di Kielce blateravano davanti al supermercato, quindi rotolavano – ridendo – contro qualcosa, i denti sporchi di sangue o vino. E la gente passava di fretta, temendo un contagio di non so che tipo, la loro stessa brutalità. Un anziano strillava con astio tutta la sua paura: pusillanimi, via, tornate a casa vostra. Allora a questo tipo di Kielce prese l’inutile orgoglio, e da giù, dalla sua fossa, disse al vecchio di chiudere il becco. «Vecchio, tu conosci a polacchi ?». Strisciava con le mani luride davanti alle porte del supermercato e cantava Mury. Mury era Solidarnosc.

* * *

Lo slavo gli sta di fronte. Sono le undici del mattino. L’altro è un nero, un africano. Lo slavo lo colpisce per primo, lo lascia a terra, il connazionale Marek lo incita, dai dagliene un’altro, un’altro. Lo fa, una due tre volte, colpisce con le mani, non usa i pugni. L’uomo sta a terra, impreca o supplica, lo slavo non si muove : odejdzie ból w dupie . Rompicoglioni, sibila. L’altro è un africano. Non capisce. La gente è in fila, sono indigeni, urlano in dialetto l’un con l’altro, in attesa della mensa. Gli africani se ne devono andare: è un berciare diffuso tra gli indigeni, uomini di mare, siciliani afflitti da una tristezza ostinata,t controlla le nocche, guarda verso il resto, sputa. Dupie , mormora tra i denti. Il connazionale Marek ride come un idiota. Sono sempre loro. I polacchi. Non sono extracomunitari. Gli africani sì, peggio che gli arabi. Gli arabi scopano le polacche, pensa lo slavo seduto, beve dal cartone, guarda fisso un punto verso quell’ammucchiata nera di carne nera che pulsa che promana qualcosa di indicibile e induce alla rabbia. Lo slavo ha il sangue alla testa. Chiudessero le frontiere pensa lo slavo seduto sulla panca, in mensa si mangia con i rognosi sbarcati, quanti sono? E se un giorno, mettiamo, un giorno si incazzano con un poliziotto, un gruppo, mettiamo, sparano, la polizia spara, mettiamo, come a Castel Volturno, mettiamo. Quanti sono sessantamila? Sessantamila scimmie africane – dice Marek, idiota – pronte per la guerra, falangi di Kobobo con il machete. E in mensa ci sono i tunisini ubriachi, dice lo slavo. Lavorano al mercato. Il connazionale Marek ride come un idiota. Ci sono i siciliani impermaliti dalla loro stessa uggia, vorrebbero battersi il petto inveire contro gli africani «patruni». I siciliani sono coscienti di un fatto: sono tristi, maledettamente. Stanno in fila in mensa, sono loro i «patruni» loro loro.

Vorrei evitare lo slavo, il convito della Caritas, un riformatorio, in fondo, considerato i soggetti, eh già, un collegio di disubbidienti, una coda di glabri, di inetti, poveracci. Malgrado ogni tanto ne sia costretta. Ho accompagnato una donna davanti la mensa. Quella donna era una madre. Davanti la mensa c’era una breve fila, aspettavano anche alcuni giovani di colore, un indigeno diceva che non li avrebbero fatti entrare. Non li chiamo africani, però lo sono. Non vedevo lo slavo. Da un angolo emanava un terribile olezzo, era un orinatoio. La donna mi diceva che era una madre, che aveva un figlio bello e bravo, lo dicono tutte le madri ma lui era speciale. Era stato l’altro il più grande, gli aveva dato due dosi. Ma lui si faceva, chiedevo. Si drogava? Lui era speciale diceva la donna, mi indicava il porto, siamo in via Arsenale. Il figlio era morto di overdose. In via Arsenale. In via Arsenale ci vivono solo personcine perbene. E uno poi lì va a morire. Ma non è bizzarro tutto ciò? Il figlio era andato via per sempre certo, via per sempre. L’indigeno non sopportava quei tizi di colore. Odiava tutti, butteri, tossici, le vecchie che parlavano dei figli morti. Vecchie di Mazzarruna l’hyde park. Lui piuttosto non faceva un buon odore no. Però temeva i sudanesi. Erano sudanesi i neri, gli africani, sbarcati, poveracci. Sudanesi. Comu ? Scuoteva il testone di buzzurro. Vengono dal Sudan, hanno fame come lei, volli precisare. La donna aveva una certa età, indossava scarpe col plantare. I figli sono pezzi di cuore, sì signora, le dissi. Uno le aveva levato casa da sotto, non so come spiegare. Uno si era venduto casa, per pagarsi l’eroina.

Potete indicarmi il senso di questa vita? Breve inciso.

Tornai in macchina, mi sedetti, ravvivai i capelli, ero a posto. Da lontano seguivo la fila in attesa. La donna si era persa dentro la minima ressa. È tutto vero. La donna era italiana. Non era africana. Ogni tanto le facevo compagnia. Una vecchia povera. Diamo un nome vero alle cose, non mentiamo, non usiamo vezzeggiativi, non usiamo soluzioni accomodanti, usiamo le parole della vita che a certuni ha mostrato ringhiosa la chiostra di denti. Non era un bello spettacolo vi assicuro. Queste cose le so, le ho notate, davanti la mensa della Caritas, quando accompagnavo la vecchia di hyde park, mai viste giubbe tanto squallide, scarpe più usurate, mani tanto grandi o dure o nere. Questa vecchia cambia spesso casa, oggi dimora in un fondaco nell’ex quartiere ebraico; prima, in un feretro, murata, peggio che da morta, contava le ore, i minuti. Da sposata stava in una casa popolare, i mobili erano quelli regalati dalla povera madre, il salotto e la camera da letto. Poi il figlio ha venduto la casa al pusher per comprarsi l’eroina. Era vedova. Allora la madre andava a trovare il figlio, in una grotta, nella via Arsenale, ma lì dimorano personcine perbene: l’arteria breve quasi periferica che insegue la linea del mare, il suo profilo frastagliato che incontra l’ostinazione della roccia. Detta così suona meglio. Suo figlio straparlava. Aveva troppa roba in corpo. Ascolto lo stesso racconto, lo stesso intervallo, la stessa nebulosa memoria che si inceppa lì alla fine quando deve dire che uno di loro, uno dei ragazzi era morto. Tornano le mie ossessioni: come ha fatto a capire che si faceva? Quanti anni aveva, si bucava? La donna fuma, racconta ancora, è la stessa storia. Il figlio dormiva sempre. Aveva tredici anni. Come Christiane. Come Babette. Come Stella. Dello zoo di Berlino. Per questo guardo gli altri ammirata. Beati loro, con le loro card, le loro Visa, i loro fottutissimi Suv. Non sanno nulla, non temono i cattivi odori. Non amo le lotte di classe. Oggi sarebbe un passaggio superato, ridicolo persino indugiarvi. Classista non è una categoria in uso. Non esiste più una classe media, non esiste la borghesia. Di che parliamo. Oggi siamo topi delle banlieu, siamo tutti portoricani, ultimi nella scala sociale, condannati no stop a esserlo. Oppure i pochi prescelti, ricchi da fare schifo. Lo slavo dice che bisogna partire prima, se vuoi farcela, nella vita, come nelle risse, lui di solito usa le craniate, non ci lascia mai il dente. È un lottatore, lo preferisco agli abulici, perché è il destino a renderci gli uni o gli altri. I topi di Mazzarruna, quell’hyde park in periferia, non erano migliori dello slavo che beve vino dal cartone. Quelli si facevano di ero, la mattina andavano al Sert per il metadone o c’erano i malati di aids e l’aids era peggio della peste in quegli anni. Esperimenti empirici mal riusciti dicevo. Poi c’è una selezione naturale e salvifica delle specie, certo come no. Dovevo cascarci dentro.

* * *

È una questione di scelte, sempre. Una volta dovevo salvare un uomo, ero convinta che salvandolo avrei salvato un popolo intero, perché mi aveva riferito così un amico ebreo. Non era presunzione, non vedevo altra possibilità, che assistere alla sua fine altrimenti, come i compagni di sbronze, i malati delle grotte: Tomek e altri Grazyna, Ewka. Compagni come quello slavo che beveva vino dal cartone. Chiedevo, supplicavo davanti la porta della chiesa, che non era mai la chiesa di Dio. Dio era con me tra i lerci. Gli uomini vestiti osservavano assurde gerarchie, sbarravano l’uscio a una certa ora. Li supplicavo di salvare quell’uomo dal freddo delle notti nelle grotte, dalla sua solitudine, dall’alcol e non mi capivano, non volevano, non intendevano. Ricordavo la fine di un tale, Miroslaw, l’alcol gli aveva bruciato l’esofago, morì di freddo e vomitando sangue sopra una roccia, in un gelido dicembre di qualche anno fa. Il compagno di sbronze urlava «Miroslaw andiamo in ospedale, ti prego», Miroslaw scuoteva il capo, nie nie hospitalu, bisbigliava. Dovevano aprire le porte delle chiese, di tutte quelle a cui avevo bussato, avrebbero salvato anche la mia anima, che non aveva mai pace. Sentivo franare il dolore del mondo sulle mie fragili spalle, non era un privilegio, era una mannaia, la folgorazione era una terrificante feritoia da cui spiare le innominabili omissioni, l’aborto di un occidente pingue, ottuso, il nostro debito scaglionarsi di grotta in grotta, di rantolo in rantolo. Le parabole evangeliche costellano i nostri sentieri, ne sono convinta. Però è una questione di scelte. Di esser primi. O ultimi.

* * *

Le grotte sono rupi al centro della città, le grotte dove muoiono i polacchi. Mentre gli africani vi riparano solo la notte e non ci muoiono. Le grotte di cui vi riferisco sono la vera metafora dei nostri vizi morali, anzi la grancassa di ogni vizio morale, la carogna di un mondo civile fasullo. Sono una voce fuori campo adesso e non sono del tutto attendibile, forse. Però desumo anche quanto segue: gli abitatori delle grotte detenevano un qualche superiore gene, portatori di una specie di meschino superomismo. Tutti i miseri a guardar bene sono la somma dell’uomo moderno, il suo debole tentativo di guadagnarsi l’anima, uno spirito, fosse pure nazionalista.

Yurek era un nazionalista. Yurek di uno sconosciuto voivodato di Polonia. Ogni mattina Yurek sedeva sulla panca del parco. Era in Italia finalmente. L’Italia era la retrovia di un parco, niente di più falso. Malediceva la sua vita, lamentandosi e tenendosi lo stomaco bucato, con un braccio secco e tremolante. Urlava, «kurwa, smetto domani, giuro che smetto », perché stava male. Tutti gli ubriaconi promettono promesse inesatte. Yurek rigettava alcol e maledizioni, temeva di trovarsi come Gregorio o l’altro, Jaruzelski – polacchi ubriaconi come lui – nello spazio d’un mattino, addossato al tronco della magnolia, incapace di sollevare le gambe in cancrena. Quella era la fine. Gregorio non si alzava più, non restava che aspettare, aspettare che morisse con le spalle abbandonate al tronco della magnolia, eretto innaturalmente. Vedevo tutto questo, allora, un montaggio mostruoso di quel che poteva diventare la vita a lasciarla fare senza giudizio o indugio. Perciò dico: è una questione di scelte, giusto? Yurek avanzava allungando il suo braccio secco, non capivo, chiedeva spicci, gli altri infastiditi frugavano in tasca, ricominciava il giro, ricominciava a bere. Yurek la rota non la faceva fino alla fine, perché beveva prima. Come quel personaggio di Hlasko che dice: «la fine è sempre la fine, dovremmo risolverci a finirla quando ormai tutto è alle nostre spalle ». Nazionalisti, già, per salvarsi l’anima, servitori alla corte di un meschino superomismo. Non perdenti, macché. Disuguali.

I disuguali rivendicano sempre qualcosa, implicitamente ok. E tale era l’urgenza che a rivendicarla era anche lo slavo che beveva dal cartone di vino e il connazionale Marek che rideva come un idiota. E i morti delle grotte. Poi c’erano le mense, gli africani, gli sbarcati, i siciliani consapevoli di non essere «patruni». Sostano davanti la mensa, andate a vedere. Sono quelli che perdono sempre. Ma per vincere (opinione personale) bisogna perdere qualcosa, finanche quel luogo del tempo e del castigo che talvolta è la memoria. Non si illudessero, non hanno perso veramente. In questo gran giro, di solito, sul finale torno al tempio. Al tempio trovo le vecchie che mi aspettano. Il tempio non è un tempio, è una piazza in un quartiere di poveri. Lo chiamiamo tempio. Le vecchie mi osservano sedute più in là. Faccio finta di non vederle. Non sono diversamente qualcosa, abitudine stupida a non dare un nome alle cose. L’ho già detto sopra. Disuguali, lo sono anch’esse. Disuguali. E c’è nel sostantivo insita una certa grazia, pur dovendo dedurne una privazione. Tra le vecchie c’è la vedova che ha perso il figlio per overdose. Poi c’è la signora V. La signora V. è un’immigrata di Germania, proprio come noi terroni dicevamo una volta, è una gastarbeiter, cortesemente accolta, nella ruota efficiente del sistema produttivo teutonico. Evito la signora V. perché è piena di amarezza, il suo pragmatismo è diventato cinismo da un pezzo, il suo sguardo nell’insieme è una smorfia di disgusto, soltanto perché non è stata amata e glielo dico, l’ho fatto: lei non conosce l’amore. La signora V. mi ha riso in faccia. La storia è sempre la stessa, gli uomini sono tutti uguali, ma il suo è stato un matrimonio combinato da famiglie di un entroterra primitivo, esistono certi accordi tribali, sono crimini. La signora V. nel frattempo ha perso l’anima, è andata a Colonia attraversando le montagne, a piedi o in ducati rumorosi e puzzolenti. Suo marito sembra un marrano, pover’uomo, e invece è stato un uomo terribil , beveva e giocava d’azzardo e imprecava sulla moglie che faceva la serva per i tedeschi, pulendo cessi e strofinando pavimenti. Lui è piegato che sembra un uncino, lavorava in fabbrica e quando usciva si infilava in un caffè fino a tarda notte, bevendo fino a morire. Ma non moriva. Perché vi racconto questo? Perché la signora V. mi incontra per consegnarmi i suoi impazienti anatemi, per raccomandarmi di aspettare il mio destino di sconfitta, soltanto perché sono una donna, una moglie lasciata sola sul talamo della vergogna. Non è la stessa cosa, ma la signora V. non capisce, nemmeno quando accorata le spiego che sono la vedova bianca di Isaia. Le sue labbra sono una piega crudele allora, per questo lascio perdere. Siamo disuguali, lo sono anch’io. Ma scopro che la signora V. ha un grande cuore. Perché lei è una gastarbeiter. Oggi diremmo uno sbarcata, lei può capire, lei sì. E non teme i neri come quel buzzurro indigeno in mensa. Ci sono le donne del quartiere, gli ambulanti al tempio. Al tempio siamo tutti disuguali. Adesso lo ripeto persino con vezzo: d-i-s-u-g-u-a-l-i. La signora V. è con me, c’è anche Maria. Le altre sono vedove perlopiù, le ascolto curiosa, non devo parlare, posso stare zitta finalmente, non devo dimostrare qualcosa, sono a posto. Fin quando non ho incontrato I. mi dice che il suo ex compagno è morto. Un rumeno, era un rumeno, un gran lavoratore dice lei, lo ricorda a se stessa, dimenticando di aggiungere altre cose, ammettendo di essere libera, finita quella tragedia dice, era un incantesimo. Sopra le nostre teste vige la catastrofe, dico compiaciuta, non vuol dire nulla, eppure lei annuisce. Mi chiede: Tu mi capisci? Sai quanto beveva, lo sai? Certo, posso immaginare, è morto di cirrosi, gran lavoratore. Lo slavo, gli uomini delle grotte, sai quanto bevevano mia cara. Le nostre storie sono assurde, sono enormi, così respingiamo gli altri dice, sono stanca di questo casino, dice. A volte non so più dove mi trovo dice cosa ho fatto, cosa è stato. Penso allo slavo che beve vino dal cartone. Ba. Quello odiava i neri. I rumeni non lo so. Uno come l’uomo di I. che è morto, un rumeno. Basta che non siano africani. Marek riderebbe come un idiota.