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La crisi Usa vista dalla Cina

All’origine dei guai attuali c’è anche lo squilibrio profondo tra i paesi in deficit e quelli in surplus commerciale e finanziario. Si rivedono protezionismo e nazionalismo. Ma il “buy american” non è una soluzione. Soprattutto quando a comprare americano sono i cinesi, principali sottoscrittori del debito Usa

La crisi sembra per molti versi aggravarsi di settimana in settimana, anche se il cuore delle difficoltà sta apparentemente trasferendosi dal settore finanziario a quello reale. Voci estremamente allarmate si vanno levando sulla situazione, nonché sulle eventuali strade percorribili per uscire dai guai; valga per tutti in proposito il breve, ma importante, articolo di M. Wolf comparso sul Financial Times dell’8 gennaio 2008, che indica, tra l’altro, come sia indispensabile mettere in piedi senza indugi un nuovo modello di sviluppo economico, pena la disintegrazione. Lo stesso Obama ha poi affermato di recente di non essere sicuro, a causa della profondità della crisi, di riuscire a portare avanti con sollecitudine, come avrebbe desiderato, molte delle riforme promesse in campagna elettorale, da quella sanitaria a quella previdenziale.

Le speranze di fuoriuscita dalle difficoltà sono in gran parte ora riposte nel piano che sta mettendo a punto la nuova presidenza americana, ma che, peraltro, prima ancora di essere ufficializzato nelle sue reali dimensioni e caratteristiche, sta suscitando un grande dibattito, nel quale il tono prevalente sembra essere quello delle osservazioni critiche anche aspre. Si vedano sul tema, oltre alle puntualizzazioni di Wolf, quelle di Krugman, apparse anche sulla stampa italiana, di Backus, di Crook, sempre sul Financial Times, di R. S. Samuelson sul Washington Post, di Baker e Herszenhorn e infine di Andrews e Herszenhorn sul New York Times. Si tratta di una vera e propria valanga. Riferimenti più precisi a tali articoli sono forniti nella bibliografia allegata.

Non vogliamo entrare in questa sede su tale dibattito generale. Con queste note proviamo ad affrontare solo un aspetto delle ipotesi in discussione.

Come è noto, nella crisi in atto, come almeno vista dagli Stati Uniti, sono presenti almeno due elementi, quello che ha a che fare con il quadro economico e politico interno e quello che invece riguarda i rapporti con il resto del mondo. Va ricordato, a questo ultimo proposito, come all’origine della crisi ci sia anche uno squilibrio molto profondo e ormai di lungo termine tra paesi in surplus commerciale e finanziario – Cina, Giappone, Germania- e paesi in deficit -Stati Uniti e gran parte dei paesi europei-, con tutte le conseguenze che tale squilibrio ha comportato sino ad oggi. Il cuore del problema, volendo semplificare al massimo, sta in particolare nei rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina.

La crisi ha mostrato chiaramente che l’assetto sopra citato non può reggere ulteriormente e che quindi appare necessario intervenire in maniera efficace per sistemare la questione. Il compito appare comunque di grande difficoltà.

Sul fronte in particolare dei rapporti tra i due grandi paesi si vanno, tra l’altro, profilando due minacce potenzialmente devastanti. La prima ha a che fare con i demoni del protezionismo e del nazionalismo, mentre la seconda ha origine sul fronte monetario.

Per quanto riguarda il primo punto, è noto in generale che in periodi di crisi si tendono a risvegliare le spinte protezionistiche. Per quanto riguarda gli Stati Uniti esse erano già peraltro presenti in maniera rilevante durante gli anni della presidenza Bush, ma il governo, a partire dal ministro del tesoro, H. Paulson, è riuscito a tenere sotto controllo il fenomeno. In particolare, la presidenza repubblicana ha nella sostanza annullato le minacce rappresentate da alcuni progetti di legge che volevano porre alti dazi ai prodotti cinesi, in relazione alla supposta sottovalutazione dello yuan, anche se non sono mancate, durante gli ultimi anni, delle procedure di infrazione portate avanti dagli stessi pubblici poteri presso l’Organizzazione Mondiale per il Commercio.

Ma ora la situazione potrebbe cambiare.

I produttori americani, pressati anche da una situazione di sovraccapacità produttiva, si stanno dando da fare fortemente, come ci informa ad esempio P. Engadio su Business Week, nel rinnovare verso le loro controparti cinesi le accuse di dumping, di incremento nei sussidi alle esportazioni, di manipolazioni dei rapporti di cambio tra lo yuan e il dollaro. Peraltro, lo stesso Obama aveva promesso a suo tempo di essere più duro con Pechino sul fronte commerciale. I cinesi, nel frattempo, respingono decisamente le accuse.

Le maggiori dispute toccano i settori dell’abbigliamento- nel corso del 2008 i produttori cinesi hanno conquistano più della metà del mercato statunitense nel settore- e quello dell’acciaio –da aprile del 2008 le esportazioni cinesi negli Stati Uniti sono triplicate, mentre decine di imprese statunitensi hanno chiuso i battenti. Da ricordare peraltro che le imprese Usa del comparto cercano da sempre di ottenere misure per frenare i concorrenti esteri, è un loro vecchio vizio. Si aggiunga comunque che la drammatica caduta dei livelli occupazionali in atto negli Stati Uniti, se dovesse continuare allo stesso ritmo, non farebbe che aggiungere altra benzina al fuoco. In ogni caso, anche i sindacati si stanno muovendo. E così diversi parlamentari democratici stanno spingendo per inserire nel prossimo piano di Obama delle clausole del tipo “buy american”.

Ne potrebbe nascere una situazione di conflitto molto aspro.

Va comunque sottolineato che le spinte protezioniste non sono in questo momento, né lo saranno nei prossimi mesi, una esclusiva degli Stati Uniti. Le imprese di molti paesi, comprese quelle cinesi, hanno cominciato a chiedere protezione ai loro governi, mentre tendono ad aumentare le misure di vario tipo pensate per rendere più difficile la vita ai produttori esteri (Davis, 2009). Si affacciano anche le svalutazioni competitive, quali quelle della sterlina e del rublo, anche se per il momento esse riguardano paesi che non hanno quasi nulla da esportare.

E veniamo ora al secondo problema. La Cina è oggi il più importante sottoscrittore di titoli pubblici e semipubblici –in particolare, per quanto riguarda questa ultima categoria, di quelli emessi dalle due società di prestiti immobiliari Freddie Mac e Fannie Mae- statunitensi. Sembrerebbe quasi impossibile far fronte a tutte le necessità finanziarie legate ai piani di salvataggio delle banche e di quelli dell’economia reale senza il contributo di Pechino, che durante il primo semestre del 2008 ha acquistato titoli del paese ad un ritmo di 50 miliardi di dollari al mese ( Bradsher, 2009) e che ancora nel solo mese di novembre dello stesso anno ne ha sottoscritti per circa 65 miliardi.

Ora anche il paese asiatico è alle prese con la necessità di intervenire in maniera decisa per far aumentare i tassi di sviluppo dell’economia. Certo il 2008 si chiuderà con una crescita del pil stimabile tra il 9% e il 9,5%, mentre le esportazioni avranno fatto ancora un balzo in avanti vicino al 20% rispetto all’anno precedente. Ma negli ultimi mesi dell’anno la situazione si è palesemente deteriorata. Mentre nel 2008 le riserve valutarie del paese si sono incrementate di più di 400 miliardi di dollari, le previsioni per il 2009 fanno così riferimento ad una cifra di “soli” 175 miliardi (Bradsher, 2009).

Va, a questo proposito, segnalato che le statistiche registrano una riduzione del flusso di investimenti esteri nel paese ed una rilevante fuoriuscita clandestina di valuta, in relazione, tra l’altro, al crollo della bolla immobiliare e alla caduta delle quotazioni di borsa. Intanto le autorità stanno spingendo le banche a ridurre i loro depositi in dollari presso la banca centrale e a prestare invece più soldi alle imprese. Comunque, la possibile riduzione del surplus della bilancia commerciale contribuirà anch’essa al ridimensionamento della crescita delle riserve valutarie. Intanto anche le entrate fiscali del paese si stanno riducendo per effetto del rallentamento dell’economia. Per altro verso, molti esportatori cinesi stanno trattenendo una quota più elevata di dollari all’estero invece di portarli nella madre patria e convertirli in yuan.

E’ stato varato un primo piano di rilancio dell’economia di circa 600 miliardi di dollari, oltre all’approvazione di altre misure di vario genere, mentre si stanno preparando altri interventi che costeranno presumibilmente degli altri soldi. Le autorità del paese affermano che in dicembre si incominciano già a vedere i primi timidi segnali di un’inversione di tendenza (Wang Xu, 2009) nell’andamento dei tassi di crescita dell’economia, ma è certamente troppo presto per cantare vittoria. Gli esperti cinesi vedono in ogni caso un rilevante miglioramento della situazione a partire dal terzo trimestre dell’anno.

In sostanza, la conclusione della nostra analisi è quella che gli spazi tecnici per continuare ad investire nei titoli di stato statunitensi si vanno facendo parecchio più stretti. Peraltro, come afferma un economista, “si tratta di una decisione politica, non di una decisione puramente tecnica” (Bradsher, 2009).

La palla è ora nelle mani di Obama. Quello che è certo è che senza un accordo rapido, ampio e duraturo tra i due paesi, l’economia del pianeta farà molta fatica a uscire dalle secche in cui si è incagliata, anzi le difficoltà potrebbero acquistare una nuova e più grave dimensione. Ma un accordo richiede da parte statunitense la disponibilità a mettere in discussione i presupposti stessi su cui si regge l’ordine economico e politico del globo e non sappiamo se la nuova amministrazione statunitense avrà la voglia e nello stesso tempo la forza per percorrere veramente tale strada. Un altro problema che si può intravedere a tale proposito è quello che magari i due contendenti riescano a mettersi d’accordo a scapito del resto del mondo.

Testi citati nell’articolo

– Andrews E. L., Herszenhorn D. M., Plan to jump-start economy with no istruction manual, The New York Times, 10 gennaio 2009

– Backer P., Herszenhorn D. M., Senate allies fault Obama on stimulus, The New York Times, 9 gennaio 2009

– Backus D., Stimulus ambivalence, www.ft.com, 10 gennaio 2009

– Bradsher K., China losing taste for debt from the U.S., The New York Times, 8 gennaio 2009

– Crook C., Obama’s shot in the arm is too small, www.ft.com, 11 gennaio 2009

– Davis B., Surge in protectionism threatens to deepen world-wide crisis, The Wall Street Journal, 12 gennaio 2009

– Engardio P., China: an early test for Obama, Business Week, 12 gennaio 2009

– Krugman P., Il piano Obama non basta, La Repubblica, 10 gennaio 2008

– Samuelson R. S., The limits of pump priming, Washington Post, 5 gennaio 2009

– Wang Xu, China can be the first to “recover” from crisis, www.chinadaily.com.cn, 12 gennaio 2009

– Wolf M., Choices made in 2009 will shape the globe’s destiny, The Financial Times, 8 gennaio 2009