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L’euro e l’Italia che non c’è più

Senza un cambiamento profondo, l’Europa non si riprenderà. È interessante analizzare i costi di un’uscita dall’euro, ma una moneta nazionale opererebbe in un contesto ben diverso dai tempi della lira. E senza Europa perderemo tutti.

Non credo esista una demarcazione netta nelle scienze sociali. Così l’economia si interseca con la storia, e queste si sovrappongono alla politica ed alla sociologia. Di per sé questo approccio ripudia il modello unico, la pretesa naturalità dell’economia. Se, per usare le parole di Piketty, “ci sono questioni che sono troppo importanti per essere lasciate agli economisti”, il tema dell’uscita dall’euro non fa eccezione. Le sofferenze sociali soprattutto dei Paesi più fragili dell’Europa, stanno producendo conseguenze sociali che ci fanno chiedere: quanto resiliente sarà la democrazia in Europa? L’euro ha lasciato i cittadini – soprattutto nei Paesi in crisi – senza voce in capitolo sul destino delle loro economie. Gli elettori hanno ripetutamente mandato a casa i politici al potere, scontenti della direzione dell’economia – ma alla fine il nuovo governo continua sullo stesso percorso dettato dalla Troika.

Ma per quanto tempo può durare questa situazione? E come reagiranno gli elettori? In tutta Europa, abbiamo assistito a un’allarmante crescita di partiti nazionalistici estremi, mentre in alcuni Paesi sono in ascesa forti movimenti separatisti. E per quanto tempo ancora le economie (e le stesse istituzioni democratiche) dei paesi periferici sopravvivere ad una unione monetaria incompleta e asimmetrica?

Serve un cambiamento strutturale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa sopravvivere: o ci sarà l’Europa politica (Stati Uniti d’Europa) o non ci sarà l’euro. Coloro che pensavano che l’euro non sarebbe potuto sopravvivere si sono ripetutamente sbagliati. Ma i critici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga riformata la struttura dell’Eurozona e fermata l’austerity, l’Europa non si riprenderà.

Condividere una moneta unica costituisce ovviamente un problema poiché così facendo si rinuncia a due dei meccanismi di aggiustamento: i tassi d’interesse ed il cambio. Se si aderisce a una moneta unica, la rinuncia ad alcuni strumenti di politica economica può essere compensata sostituendoli però con qualcosa d’altro, come una politica fiscale comune e condivisione dei debiti, mentre ad oggi l’Europa non ha messo in campo altro che il fiscal compact.

Il lavoro di Realfonzo e Viscione “Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione, salari” (http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/gli-effetti-di-unuscita-dalleuro-su-crescita-occupazione-e-salari/#.VPsrVvmG-So) è assai suggestivo e meritevole di ulteriori sviluppi. Se le svalutazioni hanno effetti positivi sulla crescita e meno sul lavoro è tema, di per sé stimolante. Qui però, dopo aver prima fatto notare che questa crisi non è come tutte le altre poiché determinata dalla dinamica strutturale e poiché avviene in piena globalizzazione (altrove argomento perché), vorrei enfatizzare alcuni dei problemi legati all’uscita dell’Italia dalla moneta unica, cosa possiamo aspettarci dal tramonto dell’euro e perché cercare risposte nella storia può essere fuorviante.

Credo che l’uscita del nostro Paese si tradurrebbe, tramite i mercati, in un incontrollabile effetto domino – ma siamo too big e too connected per abbandonare l’Unione senza provocarne la disgregazione – che porterebbe in primis al crollo dell’architettura dell’euro e di conseguenza all’abbandono dell’idea di Europa e la possibilità della trasformazione della Grande Recessione in Grande Depressione, se non altro perché l’euro è ormai una valuta di riserva mondiale.

L’euro non è insomma una porta girevole: come avviene sempre nelle cose della vita – ma non nella teoria economica dominante – esiste una freccia del tempo e ritornare indietro può voler dire non riconoscere più il punto di partenza perché le scelte fatte nel frattempo l’hanno cambiato.

Le svalutazioni precedenti sono poi accadute in regime di cambi fissi e ciò di per sé muta il contesto rispetto all’uscita dall’unione monetaria. Conseguenze politiche a parte, l’uscita sarà temporalmente lunga ed alcune misure saranno necessariamente “repressive” – chiusura dei movimenti di capitale e della Borsa – e pesanti per chi ha debiti in euro o tassi debitori in Euribor.

Uno dei pro, si dice spesso, è che l’uscita dall’euro ci consentirebbe di svalutare e quindi di aumentare la competitività. È un copione già visto – e sulla cui efficacia rimando a Realfonzo e Viscuone – che funziona solo per pochi anni. Indipendentemente dall’inflazione che potrebbe conseguire (di certo aumenterebbe il costo delle materie prime) occorrerebbe ricordare che la svalutazione equivale ad un impoverimento del paese in media e l’economia mainstream non ha gli strumenti per valutare l’impatto distributivo. Nel caso più favorevole la svalutazione produce una espansione della produzione – e dei profitti – quando la crisi ha già messo in moto i processi di de-leveraging e risparmio di spesa che coinvolge l’occupazione. L’espansione della produzione avrà quindi effetti meno che proporzionali su salari ed occupati. Gli interessi sul debito, a meno di avere autarchia finanziaria, aumentano e così la redistribuzione. Inoltre, difficilmente si può sostenere che la fuga dei capitali interessa i meno abbienti. Ma soprattutto le svalutazioni danno respiro temporaneo e non cambiano la struttura produttiva di un paese: quel che davvero occorrerebbe ai Paesi periferici dell’Europa in crisi non per il troppo debito pubblico (come i casi di Irlanda e Spagna dimostrano).

Benefici dalla svalutazione credo si avranno, ma quantitativamente assai limitati. E per 2 ragioni.

Intanto ora le nostre esportazioni vivono di qualità. L’export italiano è composto non più dai soli prodotti tradizionali, ma dal made in Italy e dai macchinari destinati all’industria: beni di qualità e poco soggetti alla concorrenza di prezzo. Svalutare non produrrà grandi benefici.

Poi ci sono ora i BRICS sulle cui produzioni, più tradizionali, siamo in concorrenza come Paese a Sviluppo Recente, ma i costi relativi non sono paragonabili e tali rimarranno anche per svalutazioni eccezionali. Una politica industriale o meglio post-industriale è la strada.

Un altro falso mito è quello del tornare Italia, non più uno dei PIIGS, col solo ritorno alla sovranità monetaria – e il nuovo matrimonio tra Tesoro e Banca d’Italia. Eravamo identificabili come PIIGS ben prima dell’euro, seppur con una definizione più aggraziata, come quella di Fuà: Paesi a Sviluppo Tardivo dell’Europa (già nel 1980 in un lavoro per l’Ocse, Fuà individuava caratteristiche comuni – alta inflazione, dualismo territoriale, deficit della bilancia dei pagamenti e di bilancio pubblico, alta disoccupazione e notevole quota di economia sommersa – in Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). La struttura economica li caratterizza mentre la rinuncia alla sovranità monetaria aggrava tale fragilità strutturale, ma non ne è la causa.

Ammesso che di sovranità monetaria si possa parlare con integrazione finanziaria e mobilità dei capitali. In fondo, con gli accordi di Bretton Woods ci vincolarono l’emissione di moneta, ma non impedirono il boom economico.

Il malessere dell’Ue è in massima parte auto-inflitto, a causa di una lunga serie di pessime decisioni di politica economica, a partire dalla creazione dell’euro. Sebbene l’intento sia stato quello di unire l’Europa, alla fine l’euro l’ha divisa: i Paesi più deboli sono riusciti, per ora, a rimanere nell’euro a prezzo di disoccupazione e deflazione salariale, crollo della domanda interna e aumento del “sommerso”. Ma non sarà per sempre.

Quali saranno i costi di una nostra uscita dall’euro resta materia di dibattito. Ciò che pare certo è che senza Europa perderemo tutti.