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Il piano Juncker fa acqua da tutte le parti

Il piano Juncker sembra essere, in gran parte, un progetto che serve soprattutto a far vedere che si sta facendo qualcosa; i suoi effetti sull’economia dei paesi del continente, dovrebbero essere, nel migliore dei casi, molto ridotti. Alla fine resta invece l’amaro in bocca per quello che si poteva fare e non si è fatto.

Di fronte al lento ma costante degradarsi della situazione dell’eurozona, il commentatore del Financial Times Wolgang Munchau ricordava qualche tempo fa che le alternative cui si trovano di fronte oggi gli strateghi di Bruxelles e dintorni sono sostanzialmente tre: la prima è quella di varare un’unione politica dei paesi membri, evento peraltro da giudicare come altamente improbabile; la seconda quella di chiudere del tutto con l’esperimento dell’euro; l’ultima, infine, di continuare come prima, come se nulla fosse.

Il commentatore ci ricorda poi, correttamente a nostro parere, che la seconda e la terza alternativa non sono da considerarsi come mutualmente escludentisi, ma che semmai la terza strada comporterebbe prima o poi una necessaria deviazione verso la seconda.

Se, di fronte alla presentazione del piano Juncker, ci si dovesse chiedere se esso faccia fare un qualche passo in avanti alla costruzione di un plausibile futuro per i paesi dell’eurozona, magari in direzione della prima alternativa sopra citata, ci sembra che la risposta debba essere largamente negativa.

Il piano

Il piano appena presentato a Bruxelles nella sue grandi linee dichiara come suo principale obiettivo quello dell’ avvio di nuovi investimenti nell’area dell’Unione Europea per presunti 315 miliardi di euro nell’arco di tre anni, portando ad un’occupazione aggiuntiva nell’area per circa 1,3 milioni di persone e spingendo in alto la crescita del pil.

Il piano, nelle intenzioni dichiarate dei suoi estensori, dovrebbe così cercare di rimediare all’attuale deficit di investimenti nell’area, eredità degli anni di crisi. I primi progetti dovrebbero partire a metà del 2015. Il piano, ha dichiarato il capogruppo socialista Pittella a Bruxelles, è frutto delle battaglie italiane a favore della crescita e dell’occupazione.

Sottolineiamo subito che se anche i risultati dichiarati fossero raggiunti, il che ci sembra abbastanza improbabile, essi sarebbero del tutto inadeguati a far ripartire in qualche modo l’economia del continente. Qualcuno ha stimato che ci vorrebbero investimenti veri e molto più elevati, stimabili almeno tra i 700 e i 1000 miliardi.

L’aumento di occupazione previsto per 1,3 milioni di persone rappresenterebbe, ad esempio, poco più di una goccia nel mare dei bisogni; a metà 2014 i disoccupati si contavano in effetti nell’ordine di circa 25 milioni di unità nell’Unione Europea e di più di 18 nella sola eurozona. Questo senza contare le persone che, scoraggiate, non cercano più un lavoro e quelle che lavorano part-time, ma vorrebbero lavorare a tempo pieno (altri 15 milioni di unità in tutto?).

Si potrebbe sempre dire che è meglio di niente, ma il problema ulteriore che si intravede dietro i numeri è quello gli obiettivi annunciati sarebbero poi ben difficilmente raggiungibili.

Le risorse raccolte dovrebbero servire a finanziare dei progetti di investimento nel campo delle infrastrutture energetiche, numeriche, di trasporto e della formazione. Qualcuno, a questo proposito, si è chiesto peraltro se anche progetti come la Torino Lione verrebbero presi in carico.

Si tratterebbe sostanzialmente di investimenti privati; ormai a sentire soltanto pronunciare l’espressione “investimenti pubblici”, a Bruxelles, a Berlino e a Roma si vede rosso e ci si indigna.

La fattibilità delle singole iniziative verrebbe demandata ad un apposito organismo tecnico, senza interferenze politiche, mentre non ci sarebbero “quote” previste per i singoli paesi; verrebbero cioè premiati soltanto i progetti in assoluto migliori.

Sottolineiamo peraltro che il piano dovrà essere approvato dal parlamento europeo con la maggioranza dei due terzi, nonché dai singoli stati membri.

21 miliardi?

Intanto i 315 miliardi rappresenterebbero un obiettivo del tutto ipotetico che si spererebbe di raggiungere, perché le risorse “vere”, a prendere alla lettera gli estensori del piano, sarebbero costituite da 21 miliardi, di cui 16 provenienti dal bilancio UE e 5 dalla Bei; per il resto, si tratterebbe di risorse finanziarie da trovare in qualche modo e che dovrebbero essere fornite o dai privati o dalle autorità nazionali.

Qualcuno ha detto che solo i 21 miliardi sarebbero soldi freschi. Ma in realtà di risorse veramente fresche non si vede neanche l’ombra.

Dei 21, 16 miliardi dovrebbero essere forniti dall’UE e 5 dalla Bei. Per quanto riguarda il primo organismo, per 8 miliardi si tratta in realtà di fondi distolti da altri impieghi produttivi e per il resto solo di impegni eventuali di pagamento. Cose simili si potrebbero dire per la Bei. Quindi vecchio vino in bottiglie nuove, come dicono nei paesi anglosassoni.

In realtà, lo stesso Juncker ha affermato che, ricorrendo invece in alternativa a risorse aggiuntive, lo schema avrebbe creato nuovo indebitamento che il blocco non può invece permettersi. Noi, ha detto solennemente il grande statista, quello stesso che ha concesso a suo tempo centinaia di miliardi di euro di abbuoni fiscali alle grandi multinazionali domiciliate nel suo paese, non tradiremo i nostri figli e i nostri nipoti firmando assegni che poi loro dovrebbero pagare.

Guy Verhofstadt, già primo ministro belga e che guida oggi uno dei gruppi del parlamento europeo, ha aggiunto solennemente che non c’è spazio per manovre; non ci sono soldi pubblici. Certo, si può aggiungere, quelli servono solo per le banche.

Non ci sono risorse aggiuntive quindi, anche perché la Germania, come al solito, sarebbe contraria ed essa ha insistito che il piano non comporti neanche un euro di maggiore indebitamento; perfettamente d’accordo in questo caso con la Gran Bretagna. Per altro verso, sempre i tedeschi hanno chiesto ed ottenuto che non si attinga neanche al fondo di stabilità o a quello per il salvataggio dei paesi in difficoltà. Inutilmente la Francia aveva invece domandato che la dotazione di base ammontasse ad almeno 80 miliardi invece dei 21 stanziati. Si ignora in proposito la posizione italiana.

10, 21, 63, 315, 1300

I 21 miliardi verrebbero incanalati in un “fondo europeo per gli investimenti strategici” (FEIS) e con la garanzia di tali risorse la Bei dovrebbe ricercare fondi sul mercato per 63 miliardi. Tale somma dovrebbe poi servire come volano per raccogliere alla fine cofinanziamenti privati e pubblici sino all’importo di 315 miliardi; essi verrebbero, in parte almeno, garantiti dal fondo dei 21 miliardi, le cui risorse si configurerebbero nel pacchetto dei finanziamenti ai singoli progetti come dei debiti subordinati. Alla fine si avrebbe così una leva di circa 15 volte, un’ipotesi di alta acrobazia finanziaria degna forse di un Madoff.

Per altro verso, c’è anche il rischio fondato che con il fondo si finanzino progetti privati che avrebbero comunque visto la luce anche senza di esso. Non si è in grado di fare stime precise in proposito, ma si dovrebbe trattare di una quota rilevante.

È vero, d’altro canto, che i paesi membri hanno presentato progetti potenzialmente finanziabili per circa 1300 miliardi, ma per la gran parte si tratta di meri auspici sulla carta, dietro i quali non ci sono al momento degli investitori privati pronti al sacrificio.

Ricordiamo, incidentalmente, che il capitale della BEI è stato aumentato di 10 miliardi nel 2012, ma che i paesi del Sud Europa, che pure hanno diligentemente sottoscritto le loro quote, non hanno avuto in cambio sostanzialmente nessun vantaggio, dal momento che gran parte dei fondi raccolti sono andati a finanziare progetti di paesi quali la Germania.

Ci sarebbe in astratto la possibilità per gli stati nazionali di contribuire anch’essi all’iniziativa, ma sembra difficile che arrivino risorse da quella parte, anche perché non c’è nessuna garanzia che i fondi stanziati da un singolo stato vengano ristornati allo stesso paese. Per quale accesso di follia dunque i singoli paesi, tutti pressati come sono dagli attuali livelli di indebitamento, dovrebbero fornire anche un solo euro per il bene comune? Il fatto che tali eventuali esborsi non sarebbero considerati nel calcolo dei deficit pubblici non rende in alcun modo la cosa più attraente; si tratta soltanto di una clausola di immagine, per provocare qualche mormorio di approvazione su dei media largamente pilotati.

Comunque, a scanso di equivoci, la Germania ha già fatto sapere che non metterà nell’impresa neanche un euro, né risulta che sino ad oggi essa abbia presentato qualche progetto che potrebbe essere finanziato con lo schema.

Conclusioni

In sintesi, il piano Juncker sembra essere, in gran parte, un progetto che serve soprattutto a far vedere che si sta facendo qualcosa; i suoi effetti sull’economia dei paesi del continente, dovrebbero essere, nel migliore dei casi, molto ridotti.

Alla fine resta invece l’amaro in bocca per quello che si poteva fare e non si è fatto. Eppure i bisogni di investimenti privati e pubblici a livello europeo sarebbero enormi.

Così il piano non sembra poter ritardare neanche di un giorno la deriva economica e politica dell’Europa in atto da tempo.