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Il modello economico giapponese e le elezioni

Invecchiamento della popolazione, debito pubblico, bassa produttività, servizi inefficienti, stagnazione prolungata: non è l’Italia, è il Giappone

“…ogni mese di settembre …il governo del Giappone regala a tutti i cittadini che hanno compiuto 100 anni nel corso dell’anno precedente una coppa d’argento;…tuttavia quest’anno per ridurre il peso della spesa generata dalla crescita nel numero degli anziani…i funzionari hanno diminuito la quantità d’argento usato per modellare ogni coppa, passando da 94 a soli 63 grammi…” (M. Dickie)

“…il paese è ancora alla ricerca di una nuova ricetta per la crescita due decenni dopo che il suo modello orientato alle esportazioni si è bloccato…” (M. Fackler)

“… l’edificio post-bellico giapponese posava su due forti pilastri. Il primo è costituito dall’alleanza militare con gli Stati Uniti… il secondo è il partito liberal-democratico, forte difensore di quell’alleanza…Uno di tali pilastri, il partito liberal-democratico, sta per crollare. Cosa accadrà all’altro?…” (D. Pilling)

Premessa

C’è un virus che appare più minaccioso di quello dell’influenza aviaria; esso tocca gli stati invece che le persone e rischia di diffondersi in maniera incontrollata, in particolare nei paesi sviluppati: si tratta del virus della stagnazione economica.

Uno dei primi paesi ad essere colpiti dal morbo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale è stato la Gran Bretagna. Negli anni sessanta e settanta del Novecento in particolare, nel paese si sono manifestati con decisione e in maniera persistente fenomeni quali la stagnazione del prodotto interno lordo, la caduta degli investimenti, un’estesa disoccupazione, un’elevata inflazione. Tra l’altro, le grandi imprese hanno accentuato in questo periodo la loro propensione a sviluppare soprattutto gli investimenti all’estero, trascurando quelli in patria, secondo una tendenza già peraltro presente nel paese sin dall’Ottocento. Dopo l’avvento della Thatcher al potere e comunque dopo un periodo ulteriore di incertezze e di difficoltà, il virus è stato alla fine combattuto con qualche efficacia, tra l’altro con il forte sviluppo delle attività finanziarie della City da una parte, di quelle immobiliari dall’altra. La lotta al morbo ha avuto peraltro, come è noto, degli alti costi sociali.

Ora la crisi ha messo in discussione la solidità e comunque la possibile continuazione dell’approccio sin qui seguito e il paese potrebbe registrare una ricaduta del male.

Peraltro, il virus, scacciato almeno momentaneamente dall’isola, ha a suo tempo trovato rifugio in Giappone. E’ noto che dal 1989 ad oggi, in sostanza, l’economia del paese è cresciuta molto poco. La stagnazione economica, insieme ad alcuni altri problemi cronici del paese, fenomeni peraltro tra di loro collegati, hanno ora affossato una classe politica che gestiva il potere dalla metà degli anni cinquanta; ma trovare una cura efficace alla malattia appare molto complesso.

Temiamo poi che tale virus abbia comunque contagiato nel frattempo anche l’Italia mentre, con la crisi in atto, esso sembra ora potersi diffondere in altri paesi importanti, quali la Spagna e la Germania, se non anche altrove.

I mali del modello giapponese

Vista l’importanza del caso e le questioni più generali da esso coinvolte e in relazione anche alle rilevanti novità portate dall’esito delle elezioni di fine agosto, ricordiamo a questo punto in specifico alcune caratteristiche del modello giapponese e successivamente cosa potrebbe cambiare con il nuovo governo.

Il primo e fondamentale problema del paese appare costituito dalla stagnazione economica; la crisi in atto non ha fatto altro che aggravare ulteriormente la questione. Il Fondo Monetario stima che il pil del paese raggiungerà di nuovo il livello del 1995 soltanto nel 2014. Nello stesso periodo, quello cinese dovrebbe essere aumentato di molte volte. Utilizzando il criterio dei prezzi di mercato, l’economia cinese sta per superare quella giapponese come dimensioni assolute e diventare la seconda nel mondo; secondo il criterio della parità dei poteri di acquisto, invece, il sorpasso è già avvenuto diversi anni fa.

Dopo lo scoppio della crisi, il governo ha approvato un programma di stimolo all’economia per un importo di ben 270 miliardi di dollari, i cui effetti sull’economia sono stati peraltro abbastanza modesti; ma così il deficit del bilancio pubblico dovrebbe passare dal 3% del 2007 al 10% nel 2010, mentre per quest’ultima data il livello dell’indebitamento sarà prossimo al 200% del pil (Dickie, 2009). E quello del record nel livello dell’indebitamento pubblico, la cui dinamica recente è marcata, negli ultimi venti anni, dal vano tentativo di far ripartire la crescita, costituisce il secondo grave problema del paese.

Secondo qualcuno, rischiamo di assistere al più grande crollo fiscale della storia (C. Weinberg, citato in Dickie, 2009). Attualmente il rendimento dei titoli giapponesi a lungo termine è soltanto dell’1,3% ed essi sono sottoscritti per la gran parte dagli investitori giapponesi; ma nessuno può prevedere cosa potrà succedere nel medio termine. Tra l’altro, prima o poi, esaurito il fondo dei risparmi interni, si dovrà ricorrere al mercato finanziario estero, non si sa con quali esiti e peraltro gli stessi giapponesi potrebbero cambiare i loro orientamenti in materia.

Il terzo pesante problema, che si intreccia inestricabilmente con gli altri due, riguarda la questione demografica. La combinazione di un tasso di fertilità molto basso – stabilizzatosi negli ultimi anni intorno all’1,37% -, con un sistema sanitario di buon livello e con stili di vita corretti produce la conseguenza che la popolazione sta insieme riducendosi ed invecchiando. Si prevede per il 2055 che il numero degli abitanti, dagli attuali 127 milioni, si riduca a 90 milioni di persone, inoltre con un numero impressionante di anziani (Dickie, 2009). La spesa a livello statale per il welfare aumenterà, secondo calcoli ottimistici, del 42% tra il 2006 e il 2015.

Va poi citato il problema della deflazione: per la gran parte dell’ultimo decennio essa ha tormentato implacabilmente il paese e, quando sembrava che la questione potesse essere accantonata, essa riappare prepotentemente con la crisi. Ancora nel luglio di quest’anno i prezzi sono diminuiti del 2,2% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, il peggior declino dai primi anni settanta, da quando cioè si è cominciato a raccogliere dati sul fenomeno.

Un ulteriore aspetto della crisi giapponese riguarda la scarsa crescita della produttività, che mostra la dinamica meno elevata riscontrabile tra i paesi del G-7 negli ultimi dieci anni, molto vicina a quella del nostro paese.

Infine, come di nuovo nel nostro caso, ci troviamo di fronte ad un settore dei servizi inefficiente e ingessato, poco aperto alla concorrenza.

Le conseguenze della stagnazione, di tale livello di indebitamento e delle tendenze demografiche, appaiono in prospettiva terrificanti, in particolare sul fronte della tassazione e della spesa pubblica future.

Le riforme di Koizumi e la situazione attuale

Nel 2003, l’allora governo Koizumi aveva cercato di combattere i problemi economici del paese attraverso delle riforme economiche e sociali di stampo neoliberista. Tra le altre cose, il governo aveva promosso una ampia liberalizzazione del mercato del lavoro, incoraggiando l’occupazione a tempo parziale e temporaneo. Questa politica avrebbe dovuto contenere i costi delle imprese e incoraggiare così le esportazioni. Sul momento la cosa è sembrata funzionare –ma si trattava di un’illusione; in realtà le esportazioni si erano riprese in relazione al boom mondiale dell’economia e alla svalutazione dello yen.

Si tratta, in ogni caso, delle stesse ricette avviate in tempi leggermente diversi e con modalità non molto dissimili anche in Italia e Germania, con risultati anche in questi casi apparentemente promettenti all’inizio, ma con esiti nettamente negativi alla fine.

Le conseguenze finali delle misure sono state in Giappone una caduta dei redditi dei lavoratori, oltre che una forte crescita delle diseguaglianze in un paese già fortemente egualitario, l’aumento della povertà, la riduzione dei consumi. Anche perché, come del resto nel caso italiano, l’apertura del mercato del lavoro non è stata accompagnata da misure di protezione adeguate per i precari.

I nuovi contratti costituiscono ormai circa un terzo del totale; con lo scoppio della crisi molti precari sono stati licenziati, mentre il numero dei disoccupati virtuali, di cui le imprese non osano ancora liberarsi –in ciò incoraggiate dal governo-, è oggi di circa sei milioni e mentre il tasso di disoccupazione sta comunque aumentando: esso si collocava a fine luglio 2009 al 5,7%, cifra certo inferiore a quella dei principali paesi occidentali, ma del tutto inusuale nel paese. Sono soprattutto le giovani generazioni che la crisi dell’impiego destabilizza.

Una crescita basata sulle esportazioni; il ruolo degli investimenti esteri

Alla vigilia della crisi, nel 2007, il surplus delle partite correnti del paese aveva raggiunto il record del 4,8% sul pil. Il livello delle esportazioni è aumentato del 4% all’anno nel decennio che cominciava nel 1992, ma la crescita è salita al 10% annuo a partire dal 2002 e sino al 2007 (The Economist, 2009). Ora, con la crisi, le esportazioni sono crollate e ancora nel luglio del 2009 esse risultavano diminuite del 36,5% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Si registra comunque molto di recente qualche lieve miglioramento della situazione.

Una serie di ragioni spiegano perché la domanda interna stagni. Le riforme portate avanti dal governo Kuizumi, come già accennato, hanno ridotto la dinamica salariale. Mentre i lavoratori ad alti salari vanno in pensione, sono sostituiti da giovani pagati molto di meno secondo i nuovi contratti. Intanto cresce la disoccupazione e gli anziani hanno timore a spendere per le incertezze finanziarie che gravano sulle loro pensioni. Va inoltre considerato che le piccole e medie imprese, che costituiscono circa il 70% dell’occupazione totale del paese, hanno difficoltà ad aumentare i salari in relazione alla loro scarsa redditività, molto differente da quella delle grandi imprese (The Economist, 2009).Tutto questo si sovrappone peraltro ad una cultura del paese poco incline in generale, come del resto quella tedesca, al consumismo, mentre la stessa struttura demografica non contribuisce certo a risolvere il problema.

Di fronte ad un mercato interno largamente maturo, le imprese stanno accentuando la tendenza a spostare le loro produzioni all’estero, in particolare verso gli altri paesi asiatici, sia per far fronte ad una domanda locale in forte crescita che per reimportare una parte delle produzioni in patria. Così tra il 2003 e il 2008 gli investimenti diretti verso l’Asia sono aumentati del 150%, con il 220% in più nei riguardi della Cina e il 526% verso l’India (Wheatley, 2009). Ma questa tendenza aggraverà probabilmente la negativa dinamica degli investimenti interni, come era già successo nella Gran Bretagna del dopoguerra.

Le prospettive politiche

Il partito democratico ha vinto le elezioni non tanto per i suoi programmi di governo, ma perché gli elettori non vogliono assolutamente più essere governati dai liberal-democratici. Il crollo della borsa e del mercato immobiliare alla fine degli anni ottanta del Novecento e la successiva palese incapacità ad uscire dalla crisi hanno fatto crollare la fiducia nella competenza economica del partito al potere, nonché dei burocrati e degli uomini d’affari che in realtà governavano dietro di essi e che costituiscono insieme quello che in Giappone viene chiamato il “triangolo di ferro”.

Bisogna comunque ricordare che il partito democratico è in gran parte una coalizione di transfughi dal partito liberal-democratico, che esso contiene al suo interno le tendenze le più varie – si pensi grosso modo alla nostra vecchia democrazia cristiana, come del resto per il partito liberaldemocratico- e che il futuro primo ministro è comunque un membro autorevole della casta economica e politica che ha da sempre il potere; egli è, di gran lunga, l’uomo politico più ricco del paese. Appare possibile che la coalizione si spacchi entro qualche tempo, perché essa non è d’accordo al suo interno su moltissimi temi. Ciononostante, si può pensare che alcune cose potrebbero cambiare in misura rilevante.

Sul piano della politica estera, il paese si trova in una situazione di grande incertezza strategica; in un certo senso esso non ha un chiaro senso di appartenenza, in bilico come è tra est ed ovest. Il partito che esce vincitore prevede di arrivare ad una alleanza più equilibrata con gli Stati Uniti e di orientarsi in maniera più decisa verso i suoi vicini asiatici, in particolare la Corea del Sud e la Cina; quest’ultimo paese è già diventato il primo partner commerciale del Giappone, soppiantando gli stessi Stati Uniti. Si potrebbe forse, un giorno, formare una unione monetaria regionale dell’Est Asia. L’esperto del partito per l’area finanziaria ha anche fatto intravedere una possibile riduzione degli averi in dollari nella composizione delle vaste riserve finanziarie del paese.

Sul piano interno, il governo sembrerebbe voler varare una politica che, invece di puntare sulle esportazioni, tenda a sviluppare la domanda interna, puntando su di una serie di misure volte ad aumentare il potere d’acquisto delle masse.

Si sta pensando, tra l’altro, a delle misure di stimolo per incrementare anche il tasso di natalità. Durante la campagna elettorale, il partito democratico ha proposto il versamento di una indennità mensile di circa 200 euro per nuovo nato sino al compimento degli studi secondari, l’ aumento dei posti negli asili nido, la gratuità dell’insegnamento sino al college. Si parla inoltre di sostegni all’agricoltura e dell’abolizione dei pedaggi autostradali. Infine, si promette l’abolizione della riforma del mercato del lavoro introdotta da Koizumi, l’aumento del salario minimo del 40% e garanzie per i redditi dei pensionati.

Questi provvedimenti, in sé apparentemente interessanti, fanno peraltro sorgere fortissimi dubbi sulla loro possibile copertura finanziaria, di fronte ad un bilancio pubblico già disastrato.

Conclusioni

Il paese appare in gravi difficoltà e in preda a forti incertezze. Comunque, le somiglianze della situazione giapponese con quella italiana e di altri paesi occidentali sono molto numerose. Le tendenze demografiche, il livello del debito pubblico, l’inefficienza politica, la scarsa dinamica della produttività, l’inefficienza del settore dei servizi, in parte anche il rilevante orientamento alle esportazioni, sono tutti fattori che avvicinano il nostro paese a quello asiatico, anche se ovviamente esistono pure delle differenze di rilievo. Importanti appaiono anche alcune somiglianze con il caso tedesco.

C’è qualcuno in giro che è in grado di combattere adeguatamente il virus, in Giappone ed in Europa?

Testi citati nell’articolo

-Dickie M., A fiscal fraity, www.ft.com, 3 agosto 2009

-Fackler M., Lost in Japan’s election season: the economy, The New York Times, 29 agosto 2009

-Pilling D., Japan shrinks from the american embrace, The Financial Times, 23 luglio 2008

The Economist, Stuck in neutral, 13 agosto 2009

-Wheatley A., Japan could defy the skeptics, The New York Times, 18 agosto 2009