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Il bilancio espansivo che serve all’Europa

La rotta d’Italia. Contro l’inerzia delle politiche e delle idee dominanti, per uscire dalla crisis serve un bilancio federale europeo che arrivi al 10% del Pil, finanziato da Tobin tax ed emissione di moneta della Bce

Nel dibattito sulla “rotta d’Italia” l’articolo di Gnesutta e Pianta ha mostrato, in termini politici e di possibili politiche economiche, come il nuovo governo si troverà di fronte ad un gioco complesso, in cui se per un verso sarà condizionato dai soggetti europei, per l’altro dovrà cercare di condizionarli in funzione di un cambiamento. Tale cambiamento è necessario dapprima per impedire che l’Europa come costruzione politica collassi e, successivamente, per riprendere, non solo a chiacchiere, l’idea di fare dell’Europa un polo competitivo e politico planetario. Vorrei qui fare delle riflessioni – quasi un contrappunto – su piani diversi: analitico, retorico, ideologico.

Ci sono buone ragioni per imbastire questo meta-discorso. Come ho già argomentato in questa sede una gran parte della sinistra e dei sindacati, sia in Italia che in Europa, è convinta che le tesi portate avanti dalla Commissione, dalla Signora Merkel in Germania e in Europa e dal Sig. Monti in Italia siano sostanzialmente corrette e solo troppo drastiche. Se, dopo le elezioni, la sinistra si troverà a doversi misurare con l’Europa e a dover “trattare” con il Sig. Monti, è opportuno che le idee siano tanto chiare da escludere qualsiasi proposizione non razionalmente fondata.

Agende e chimere

Un buon esempio di tali proposizioni sta nelle considerazioni dell’agenda Monti sulle politiche del lavoro. Parlare di “ridurre a un anno al massimo” il tempo medio di passaggio da un’occupazione all’altra, rendendo più “fluido e sicuro” il passaggio dei lavoratori dalle imprese meno produttive a quelle più produttive o comunque in fase di espansione, è una chimera. Le imprese più produttive o in fase di espansione necessarie non esistono. Per farle occorre tempo e condizioni ambientali diverse dal quelle attuali.

La loro esistenza è invece data per certa, nell’Agenda, quale semplice conseguenza delle misure per rendere il lavoro flessibile e delle virtù taumaturgiche attribuite alla contrattazione decentrata. Ma l’evolversi della realtà non dipende da ipotesi. I posti di lavoro non vengono creati né da una maggiore produttività né da una maggiore flessibilità ma da una più estesa capacità produttiva cui corrispondano possibilità di vendita più estese.

Questa più estesa capacità produttiva, premiabile da un mercato che ne sia captivo, si costruisce in un tempo lungo, non solo con più investimenti ma con più estese, ma non improvvisabili, capacità imprenditoriali, di ricerca e di uso del capitale umano. Naturalmente questa riflessione rende ridicola la successiva e ben nobile proposizione montiana che occorra “coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale dei lavoratori nel mercato del lavoro”, per non parlare delle ulteriori proposizioni su occupazione giovanile, invecchiamento attivo e innalzamento del tasso di attività femminile.

I nobili obiettivi delle tecnocrazie ….

Fare della Bce un prestatore di ultima istanza per il debito pubblico dei paesi europei – come indicato da Gnesutta e Pianta – è un passo necessario, ancorché di difficile realizzazione politica, per stroncare la speculazione basata su presunti rischi-paese differenziali. Ma esistono, nella realtà, equivoci ben più pesanti – tutti da chiarire – che riguardano gli intrecci tra la creazione di moneta, la creazione di domanda di beni e servizi e le banche ordinarie che dovrebbero erogare il credito alle attività produttive. Tali intrecci fanno dell’Europa un caso tanto speciale da far invocare, fuori dall’Europa, una riforma che conduca la Bce ad essere simile alla Fed.

Le banche centrali hanno con forza perseguito, nell’ultimo ventennio del secolo scorso, quattro obiettivi:

(1) svincolarsi completamente dai condizionamenti politici, e per questo hanno, nel giro di pochi anni a partire dagli anni 1980 nei diversi paesi europei, realizzato il cosiddetto “divorzio” dalla sfera politica. È vero che erano stati preceduti su questa strada, nell’immediato secondo dopoguerra, dagli Usa. Tuttavia il divorzio europeo è stato per lo più ostile, al contrario di quanto è tradizionale negli Usa, dove la Fed ha quasi sempre negoziato con la Presidenza;

(2) il superamento delle banche specializzate, in particolare nella raccolta del risparmio, negli investimenti di rischio, nel credito industriale a medio e lungo termine, con l’avvento di banche universali, capaci cioè di trattare qualsiasi tipo di affare bancario e finanziario;

(3) restringere la discrezionalità delle politiche fiscali, attraverso il divieto per le banche centrali di sottoscrivere i titoli pubblici all’emissione, con l’idea di porre comunque un freno all’indebitamento pubblico;

(4) l’unificazione monetaria europea.

Questo intreccio di obbiettivi ha condotto le banche centrali europee e poi la Bce a condizionare sempre più intensamente la discrezionalità politica nelle azioni pubbliche. Le loro strategie sono state rinforzate dagli atteggiamenti di altre autorevoli istituzioni tecnocratiche internazionali (Fmi, sezioni economiche dell’Ocse, Commmissione Europea). Gli atteggiamenti di tutte tali tecnocrazie sono favorevoli a principi di mercato, in particolare di un mercato astrattamente concepito, e sono omogenei tra le diverse strutture (non a caso vi è chi, riferendosi alle teorie da esse sposate, ha parlato di “pensiero unico”).

Il bacino di raccolta dei propri, ben pagati, officers è lo stesso per tutte queste tecnocrazie: i giovani economisti formatisi, a partire dalla seconda metà degli anni 1970, in prestigiose università segnate dall’imprinting teorico del modello di equilibrio generale con aspettative razionali e, più tardi, dall’uso ipertrofico di strumenti econometrici. Tornerò tra un momento su questi aspetti, ma prima lasciatemi accennare agli effetti pratici delle azioni connesse agli obiettivi più sopra menzionati.

…e i loro pasticciati effetti

Il primo di tali effetti, in Europa, è stato quello di cambiare le modalità di creazione della moneta. Mentre in precedenza (e ancor oggi altrove nel mondo) il finanziamento del debito poteva avvenire con la copertura monetaria delle banche centrali ovvero con emissione di titoli sottoscritti da risparmiatori e/o banche, con i cambiamenti descritti restava solo la seconda strada; ma per ottenere tale risultato le banche centrali prima, la Bce in seguito, “persuadevano” le banche a sottoscrivere i titoli pubblici, prestando loro danaro a bassissimi tassi di interesse e consentendo loro, per questa strada, opzioni di guadagno apparentemente non rischiose; valeva infatti allora, fino all’esplodere della crisi, il convincimento delle banche ordinarie che le banche centrali sarebbero comunque intervenute in caso di problemi.

Del resto la Bce corroborava tale convincimento nella misura in cui, rendendosi conto dell’esistenza di bolle speculative e del fatto che stava creando moneta ben oltre le soglie da lei stessa prefissate (si veda oltre), decideva (e rendeva noto nei propri bollettini) che avrebbe lasciato che la bolla esplodesse e avrebbe “messo ordine” a bolla esplosa. In ogni caso le banche, disponendo di moneta a tassi di interesse ridicoli, erano sempre più propense a gonfiare i propri portafogli di titoli dei diversi paesi europei e ad operare prestiti in misura crescente e prevalente sui mercati finanziari, imparando a gestire in proprio portafogli e fondi.

I rischi paese divennero invece rilevanti solo a partire dal momento in cui, con l’esplodere della crisi, apparve chiaro che la Bce non avrebbe operato quale prestatore di ultima istanza per i debiti pubblici dei paesi membri esposti, inducendo conseguenze negative sulla valutazione dei patrimoni bancari e obbligando comunque la Bce ad intervenire non per salvare gli stati, bensì le banche che erano in crisi anche per il fatto di detenere troppi titoli degli stati. L’esigenza di rinforzare il patrimonio delle banche e la loro capacità di offrire garanzie (divenuta una richiesta da parte delle autorità vigilanti) ha finito per fungere da freno alle erogazioni di credito nei confronti delle attività produttive e per acquisti immobiliari. A questo danno, tuttavia, la riforma bancaria ne ha aggiunto un altro. La maggiore convenienza per le banche ad erogare credito a favore delle operazioni finanziarie ha indotto una progressiva perdita di expertise nella valutazione, da parte delle banche, delle opzioni di credito alle attività industriali; un vero e proprio “sviamento” delle vocazioni specializzate che esistevano prima delle riforme bancarie.

L’impudenza delle tecnocrazie discende dall’incapacità di altri attori di evidenziarne le responsabilità

Alla base di tutto ciò vi è una notevole impudenza delle tecnocrazie internazionali e delle banche centrali. Esse infatti mantengono invariate nel tempo le stesse posizioni e gli stessi comportamenti non ostante l’accumularsi di errori ed incoerenze difficilmente negabili. A ciò contribuisce il fatto che manca una cultura, presso la sfera politica, capace di porsi in condizioni di controllo ed eventuale contrasto con esse. Le tecnocrazie finiscono così per divenire esenti da azioni di responsabilità (anche perché da queste potrebbero derivare ondate di panico). Risultato? Un rafforzamento, anziché un indebolimento, delle tecnocrazie stesse. Naturalmente a tale irresponsabilità concorre il fatto che le loro idee sono state sempre favorite dal mondo patinato della finanza e dalla benevolenza dei media. Consideriamo le più evidenti tra le “failures” tecnocratiche.

Prima dell’unificazione monetaria europea le banche centrali hanno voluto e ottenuto pieni poteri in materia di indipendenza dai condizionamenti politici (il “divorzio”), nella convinzione che ciò avrebbe posto un freno all’indebitamento pubblico. Convinzione infondata! Nell’alternativa tra finanziare con imposte immediate e impopolari e farsi prestare soldi e innalzare le imposte dopo anni, i politici hanno quasi sempre scelto la seconda opzione, che riduce le resistenze politiche e favorisce comunque i più ricchi. Ma questo lo si sapeva fin dai tempi di Puviani e Pareto, nei primi anni del Novecento.

Nella partita dell’unificazione monetaria le banche centrali sono state determinanti. Eppure esse avrebbero dovuto sapere (e certamente sapevano ma tacevano) che mancavano le premesse per una unione monetaria di successo. Ciò non dipendeva solo dal fatto che l’unione monetaria perseguita non corrispondeva, neanche alla luce delle teorie standard, ad un’area monetaria ottimale, ma da problemi di prevedibile incoerenza politica, dovuti alla mancanza di capacità e volontà di coordinare le politiche fiscali, in particolare con la Germania e i paesi nordici alla Germania simili per l’accumulazione di capitale umano e sociale. E’ impossibile che non si determinino tensioni insopportabili in una area monetaria in cui esistono paesi inflessibili nel mantenere una posizione permanente di eccesso di esportazioni. Non a caso a Bretton Woods Keynes insisteva affinché i paesi in avanzo commerciale venissero obbligati a far aumentare domanda ed importazioni; ciò infatti avrebbe condotto i paesi in disavanzo, obbligati ad una politica di austerità, e quelli in avanzo a riequilibrare nel lungo periodo i rispettivi conti.

Tutte tali difficoltà erano note. Ciònonostante, le banche centrali prepararono pamphlets patinati e densi di proposizioni econometriche (molte delle quali palesemente forzate) per mostrare tutti – e solo – i vantaggi dell’unificazione monetaria: una sorta di trionfalismo sfrenato che impedì, tra le altre cose, di prendere in seria considerazione cosa si sarebbe potuto fare, successivamente all’unificazione, in caso di fallimento dell’unione. Non ci si è posti cioè la domanda, cruciale per chi comanda, di quali fossero le vie di fuga. Nessuno nega l’importanza politicamente coesiva, quale appariva ex ante, dell’unificazione. Ma nessuno, apparentemente, si è preoccupato delle spinte anticoesive che avrebbero potuto emergere a seguito delle difficoltà successive.

La condotta della Bce e la stagione delle contraddizioni

Con l’avvento della Bce si è aperta la stagione delle sfacciate contraddizioni. Essa aveva fissato il tasso annuo di creazione di moneta al 4,5%, quale compromesso tra un tasso di sviluppo e un tasso di inflazione entrambi intorno al 2%. Eppure per tutto il periodo pre-crisi la Bce ha creato moneta nella misura media del 7,5%, con picchi oltre al 10. Le giustificazioni per tali scostamenti, scritte puntualmente nei bollettini Bce, erano poco più che risibili (specie se lette in successione, ma dubito che i politici li abbiano letti). Ciò non ostante l’inflazione (la grande paura della Bundesbank) restò al 2%.

Al contempo era chiaro perfino alla Bce che l’eccedenza della creazione di moneta rispetto alla somma tra i tassi di inflazione e di crescita non poteva che andare ad alimentare l’inflazione finanziaria. Ma questa non è mai stata considerata un male; anzi tutti sembravano essere contenti di una crescita degli indici della ricchezza immobiliare e finanziaria ben oltre le prospettive di crescita dell’economia reale. Come ho detto enne discusso se fosse opportuno frenare le bolle speculative, ma prevalse la tesi di lasciarle libere, salvo poi “ripulire il terreno” dopo la loro inevitabile esplosione. Abbiamo tutti la consapevolezza di quanto debole fosse la capacità di ripulire il terreno.

Mi fermo. Pianta ha documentato in questa sede molti altri errori previsionali e non c’è bisogno che li ricordi. Di nuovo ci sono solo le correzioni al ribasso delle previsioni di sviluppo per l’Italia appena fatte da tutte le tecnocrazie; correzioni fatte, da notare, del tutto indipendentemente da previsioni sull’esito delle elezioni italiane, quasi a riprova di quanto poco conti, per il momento, la sfera politica. Vale quindi la pena di scavare un po’ più a fondo sulle distorsioni culturali e politiche che sono alla base di quanto descritto.

Il lupo perde il pelo …

Un buon punto di partenza in tal senso lo offrono Gnesutta e Pianta (e prima di loro in questa sede Baranes) nella misura in cui essi vedono un fatto importante e nuovo nell’atteggiamento del Fmi rispetto all’austerità fiscale. Purtroppo così non è. Vi è stata solo una reticente presa d’atto, personale, non ufficiale e comunque quasi inevitabile, di errori di stima. La lettura dell’articolo di Blanchard e Leigh (e di quello analogo per metodo e contenuto di Corsetti et al.) mostra infatti che nulla è cambiato nella visione di fondo. Il mondo degli economisti delle tecnocrazie è animato da agenti iperrazionali che risparmiano e consumano in modo da “ottimizzare” i loro “piani di consumo” attraverso il tempo (e altre amenità comportamentali dal lato delle imprese e del mercato). In questo mondo empireo e astratto la domanda non reagirebbe a impulsi fiscali espansivi (e, simmetricamente, restrittivi), ciò che nel linguaggio specializzato degli economisti viene raccontato dicendo che i “moltiplicatori” degli impulsi fiscali sono pari a zero. Ciò avverrebbe per il fatto che gli agenti “neutralizzerebbero” gli effetti di un bilancio espa sivo (anziché neutrale) rispetto al Pil, per esempio risparmiando di più, nella previsione iperrazionale dell’esigenza futura di maggiori imposte rivolte a sanare gli squilibri creati con le politiche espansive (sarebbe il mercato a prendersi cura del Pil).

Negli approcci in cui i moltiplicatori sono stati inventati ad essi venivano invece attribuiti valori assoluti positivi, più o meno grandi, a segnare il fatto che gli impulsi fiscali hanno effetti e li hanno perché fanno variare redditi e domanda, in senso positivo le maggiori spese e le riduzioni di imposta, in senso negativo le maggiori imposte e le riduzioni di spesa. E i moltiplicatori si chiamano così perché ciascuna di quelle poste di bilancio non ha solo effetti diretti e immediati, ma si propaga nel sistema (se, ad esempio, vi sono maggiori acquisti dello stato, i fattori della produzione che concorrono a produrre i beni corrispondenti vengono pagati e, a loro volta, comprano e pagano ulteriori fattori della produzione, ecc). Naturalmente, per avere tali positivi risultati, occorre che si sia in una situazione con capacità produttiva inutilizzata (e ce n’è) e forza lavoro disponibile (la disoccupazione, e ce n’è davvero tanta). In tale visione e in tali appena ricordate circostanze un bilancio espansivo non presenta costi reali (non si sacrifica nessuna produzione privata), si ha solo maggiore produzione complessiva usando ciò che sarebbe usabile e non è usato.

La novità delle recenti “correzioni” sta quindi solo nel fatto che, nel mondo degli agenti iper-razionali, si ammette (controvoglia) che i comportamenti individuali possono essere sensibili a condizioni ambientali particolari, peraltro di difficile stima; tra questi l’intensità e la durata di fasi di crisi recessiva. Non esiste alcun ripensamento teorico. Per Blanchard le variazioni del bilancio influiscono sulla domanda, certo, ma solo per ghiribizzi contingenti all’ambiente. Nell’approccio degli economisti del Fmi il semplice “ragionare” sulle relazioni umane, su cui si reggeva l’idea dei moltiplicatori di Keynes-Kahn-Lerner, viene sostituito da un approccio econometrico che non esito a definire “eroico” (sostanzialmente la stima di errori di stima), che usa simultaneamente serie storiche di dati riferiti ad una molteplicità di paesi. Dalla mancata revisione delle basi teoriche, sottovalutata da chi riguarda l’ammissione degli errori come una svolta importante, segue la convinzione abbastanza indefettibile di Blanchard & Co. che il buon principio dell’austerità andrebbe mantenuto e, quale conseguenza del riscontro degli errori, solo “declinato” diversamente nel breve periodo perché, in particolari momenti e in particolari contesti storico-ambientali, i moltiplicatori, invece che essere nell’intorno del valore “zero” (come è giusto che sia!), possono assumere un valore situabile tra 0,5 e 3. Conclusione: occorre essere un tantino più cauti e tentare di dare un ruolo, nelle future stime previsionali, a un certo numero di variabili di contesto.

La possibile diversa declinazione dell’austerità è anche quanto viene molto ben recitato nello studio IAGS, sempre richiamato in una prospettiva positiva da Gnesutta e Pianta. E anche qui ho le medesime riserve, solo di ordine culturale. Il modello IAGS parte infatti anch’esso dal modello teorico ortodosso e dalla stima di moltiplicatori variabili in funzione inversa del tasso di crescita (questa è la sostanza). Associando tuttavia ciò ad una interpretazione degli accordi europei articolata e intelligente, in particolare ammettendo che i bilanci annuali possano essere in deficit (entro il 3% del Pil) e che le decumulazione dello stock di debito pregresso possa essere modulato in un periodo di tempo lungo, il modello usa strategie di ottimizzazione dinamica per determinare le politiche di bilancio più capaci di conciliare crescita e vincoli di austerità. L’esercizio dello IAGS è straordinariamente più intelligente delle strategie fin qui adottate. Non posso quindi che essere d’accordo sull’opportunità di sostenerne le raccomandazioni. Ma non si tratta certo di una vera svolta e non a caso si afferma (p.89) che “lo spirito delle varie regole fiscali deve essere rispettato”.

Felicità è una lunga abitudine a ragionare (diceva Stendhal). Ci sono speranze?

Occorrerebbe, in effetti, tornare a ragionare sulle cose e sulle relazioni sociali, in termini di possibilità e tendenze, come hanno fatto nel corso del tempo molti dei grandi economisti del passato. L’econometria è importante ma da sola può essere sviante, visto che le previsioni che consente non possono che essere contingenti ad un insieme di relazioni strutturali – quelle riguardanti il passato e che hanno consentito la stima dei parametri – che si ipotizzano permanere nel futuro. È solo la stabilità strutturale che consente di fare previsioni, una stabilità che ex ante è solo un’ipotesi sulla quale continuare a ragionare.

Di nuovo un esempio non casuale: se diamo per buona la relazione tra creazione di moneta e inflazione, stimata sui dati precedenti il 2000 e sulla base della quale la Bce ha stabilito il suo target di un tasso di espansione dell’offerta di moneta del 4,5%, il fatto che un aumento molto maggiore dell’offerta di moneta negli anni 2000 non abbia generato l’attesa inflazione dei flussi di beni e servizi prodotti può significare solo due cose: o le sottostanti relazioni strutturali sono cambiate, senza che la Bce se ne accorgesse, o l’intero modello sottostante aveva qualcosa di sbagliato, cosa mai ammessa. Eppure ci vuol poco a vedere che la tesi di una correlazione necessitata tra offerta di moneta e inflazione dei flussi vale solo se si esclude che la moneta venga usata per generare un eccesso di domanda sugli stock, cosa che la Bce, invece, implicitamente ammetteva quando si poneva il problema se e come intervenire sulla “bolla speculativa”.

Anche in questo caso non è l’esistenza di errori che deve scandalizzare, ma la resilienza ad ammetterli, la rinuncia a provare a ragionare pur di mantenere i propri orientamenti. Orientamenti che, a tal punto, appaiono per quel che sono: ideologie, convenienti nella misura in cui sono funzionali ad interessi potenti. Allo spezzone ideologico macroeconomico dell’austerità fiscale corrispondono altri spezzoni ideologici, come quello, già discusso, in base al quale sviluppo, occupazione e crescita conseguirebbero dalla riforma del mercato del lavoro.

Proposte

Le mie considerazioni non hanno lo scopo di far perdere le speranze, hanno quello di vaccinare. Come ho detto, infatti, le chimere e i miti diffusi dal signor Monti, in linea con le tecnocrazie, hanno purtroppo vasta presa non solo per un’ampia parte dell’opinione pubblica, ma ancora di più nei think tank (si fa per dire) dei notabili politici, anche di sinistra. È indispensabile, dati i rapporti di forza, rapportarsi a tali miti e chimere per linee interne (come suggeriscono Gnesutta e Pianta) e con gradualità nel tempo. Ma proprio per questo è importante vaccinarsi; aiuta a distinguere tra compromessi e adesioni troppo entusiaste. Questo aiuta a mettere a fuoco strategie e proposte.

La proposta dello IAGS gioca su margini troppo ristretti di disavanzo di bilancio complessivo europeo. Se si potessero (si fossero potuti) giocare i principi suggeriti da Keynes a Bretton Woods si sarebbe dovuti portare in disavanzo i bilanci pubblici di tutti i paesi europei con bilance commerciali in attivo tendenziale, al fine di stimolare consumi e importazioni. Una via del genere è purtroppo perdente, almeno per ora, sul piano politico.

Esiste un’altra proposta, politicamente molto più appetibile e possibilmente vincente, nella misura in cui appare costituire il modo giusto di rilanciare la carta della coesione e dell’integrazione europea. Quella di stimolare un movimento, che parta dal basso e tenda a coinvolgere il Parlamento europeo e le forze di sinistra e sindacali in modo trasversale in Europa, che abbia come obiettivo la creazione di un vero “bilancio federale europeo” (i nomi contano), che punti a crescere gradualmente fino a coinvolgere il 10% del Pil europeo. Tale bilancio dovrebbe essere alimentato non solo da partecipazioni automatiche a talune imposte o da una Tobin tax europea, oltre che dai tradizionali contributi, ma anche da deficit monetizzati direttamente dalla Bce, in misura congiunturalmente variabile da concordare con la Bce. Inizialmente, in attesa dell’abbandono dei vincoli posti alla Bce, lo stesso risultato potrebbe essere parzialmente conseguito stabilendo opportune triangolazioni con la Bei.

Tale bilancio dovrebbe essere riservato al finanziamento di beni pubblici di rango europeo (ricerca, educazione universitaria, salute, ambiente) e di politiche industriali, organizzate intorno a programmi rivolti a fare dell’Europa un polo competitivo planetario. Si può tranquillamente riprendere il discorso dell’Europa della conoscenza, ma va fatto sul serio, destinando risorse non marginali a tutto ciò. La scommessa deve essere grossa, suscitare entusiasmo, creare ottimismo.

Occorre inoltre, complementariamente, ricondurre le banche alla loro funzione più naturale, ancorché non esclusiva, di finanziare gli investimenti in attività direttamente produttive, consentendo al contempo che i bassi tassi di interesse praticati dalla Bce nei confronti delle banche si traducano in tassi bassi anche per i destinatari dei prestiti. A questo fine occorrono poche cose, semplici ma scandalose.

La prima è che alle banche venga fatto obbligo di detenere una quota degli impieghi nella forma di crediti alle attività produttive in campo reale, in particolare industriale e agricolo, predisponendo al contempo qualche accorgimento intelligente, ad esempio che le banche che hanno impieghi industriali in eccesso sul vincolo possano “vendere” alle banche sotto quota dei vouchers usabili per il rispetto del vincolo. Occorrerebbe anche ammettere che per le istruttorie le banche possano rivolgersi ad agenzie specializzate in tali tipi di investimento. La quota obbligatoria dovrebbe essere modulata in funzione della congiuntura e delle politiche industriali europee. Questi accorgimenti dovrebbero riprodurre, in un lasso di tempo ragionevole, le specializzazioni e l’accumulo di expertise che esistevano prima delle riforme bancarie varate negli ultimi due decenni del secolo scorso.

Andrebbero al contempo costituiti, con interventi pubblici, fondi di garanzia specializzati per i diversi tipi di credito. In tal modo le banche non potrebbero più invocare un premio eccessivo sui prestiti con la scusa del rischio, sicché gli effetti dei bassi livelli del tasso di sconto si dovrebbero trasferire all’economia reale, quanto meno in presenza di un controllo antitrust efficace. I costi pubblici di tali interventi sarebbero bassi, visto che il rischio a carico di un canestro di crediti è minore di quello dei singoli crediti. Senza contare che una ripresa delle attività che verrebbe favorita da tali strategie diminuirebbe in assoluto la probabilità di fallimenti.