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I pericoli di Trump

Dopo il No agli accordi di Parigi sul clima il pericolo maggiore, anche ecologico, di Trump, del suo unilateralismo, sta nella valigetta col comando sul nucleare che lo segue sempre

Chi abbia sentito e visto il Presidente degli Stati Uniti dichiarare l’uscita dall’accordo di Parigi sul clima avrà riscoperto il Trump della campagna elettorale: insultante, aggressivo, che fa le smorfie. Le smorfie di Trump sono brutte, grottesche, più di quelle di Mussolini. Hanno indotto, a suo tempo, “The Economist” a fare una copertina assai scurrile che ritraeva Trump non solo come un maiale, ma con la faccia dalla parte sbagliata. Somigliante; ma irrilevante. Mussolini non cadde, alla fine, perché faceva le smorfie; e Trump le elezioni le ha vinte, sia pure per un pelo, e con molti voti meno della Clinton.

Trump ha anche fatto il solito fuoco di sbarramento citando vessazioni subite dagli Stati Uniti, in generale e in seguito all’accordo di Parigi; percentuali di riduzione della produzione di carbone (86%, ha detto) e di acciaio, forse previste più che imposte; centinaia di migliaia, milioni di posti di lavoro che deriverebbero dal ritorno americano all’industria pesante. Si è dichiarato assai sensibile ai temi ecologici; si è detto pronto a trattare un nuovo accordo; ma non contro gli interessi degli Stati Uniti. Da tempo non si sentiva un Presidente, non solo degli Stati Uniti, dichiarare un tale amore per gli operai. “Sono stato eletto dai cittadini di Pittsburg, non di Parigi” – ha detto. E tutti hanno ripreso, perché lo slogan è efficace. Non però il sindaco di Pittsburg che ha detto, più o meno: “Not in my name”.

I paesi firmatari maggiori che si sono espressi hanno mantenuto l’adesione all’accordo e parlato di autolesionismo americano. “Fox” e il “Wall Street Journal” hanno approvato, come Libero, entusiasta e invidioso di tanto coraggio. Tesla e la Silicon Valley hanno deprecato. “Politico” ha parlato di “unilateralismo”, nel senso di decisione totalmente autonoma, senza coinvolgimento del Parlamento, nei cui due rami, tuttavia, il Partito Repubblicano ha la maggioranza.

Pericoli tendenziali

Si potrebbe parlare di unilateralismo anche in un senso più ampio, e pericoloso. Uscire, legalmente, dall’accordo di Parigi è possibile, ma dopo tre anni. Si è letto che i tempi potrebbero essere ridotti ad un anno se gli Stati Uniti denunciassero il trattato dell’ONU che ha avviato il negoziato di cui l’accordo è il risultato. Ma Trump, come spesso fanno gli Stati Uniti, che non riconoscono i tribunali internazionali, non ha fatto il minimo cenno alla legalità. Ha semplicemente detto che non verserà la quota prevista al Fondo Verde e che non rispetterà i limiti di produzione previsti dal trattato, da subito. “La parola è dello Zar. Se vuole la dà; se non vuole la ritoglie” – dicevano i boiardi sopra la testa di Ivan bambino. Figuriamoci poi se la parola l’ha data lo Zar precedente, che è utile sconfessare e attaccare, per la sua imprudenza e il danno recato ai lavoratori americani. E’ un eccezionalismo americano senza il minimo cenno alle eccezionali qualità, alla unicità della storia che lo giustificherebbero.

 Debolezze possibili

Nessuno può impedire agli Stati Uniti di fare ciò che fanno. Non subito; non senza costruire una politica commerciale, estera e di difesa diversa, che funzioni davvero. Sono i forti che applicano sanzioni ai deboli, non viceversa. E’ possibile che un equilibrio diverso si formi nel tempo: è sperabile ma non certo che sia migliore di quello attuale. La politica, speriamo europea e democratica, cioè contendibile, con una maggioranza e una opposizone, si fa per provarci.

La debolezza immediata di Trump sta nella enormità e difficoltà di attuazione delle sue promesse. Nessuno può togliergli il potere di non pagare. Ma già non rispettare i limiti di produzione del carbone e dell’acciaio non dipende solo da lui. Non solo i sindaci ma anche i padroni di Pittsburg e delle altre città nominate devono essere d’accordo, trovarci un vantaggio, riuscirci, a violarli. Il carbone e l’acciaio vanno non solo prodotti ma anche venduti, usati. La concorrenza del maggior produttore di acciaio al mondo (intorno al 60% del totale), cioè la Cina, può essere scoraggiata o bloccata dai dazi sul suolo americano, ma non dappertutto. Bisogna che chi ha bisogno di energia scelga il carbone, anche se petrolio e gas, forse convengono, oltre ad essere meno inquinanti. Per non parlare delle energie rinnovabili, nella cui produzione la Cina è leader.

Ancora più difficile creare davvero posti di lavoro netti in più. Il tasso di attività degli Stati Uniti è basso; la morbilità, l’invalidità, la mortalità negli Stati Uniti sono più alte di quelle europee. Morbilità e invalidità influiscono sul tasso di attività raggiungibile. Il pieno impiego degli ex-siderurgici ed ex- minatori americani sembra una favola analoga al pieno riutilizzo dei cassintegrati di Mirafiori e di Pomigliano. Anche i cassintegrati della ex-Fiat hanno basse capacità lavorative, e perciò non sono, e non possono essere, riutilizzati. Per fortuna prendono almeno la cassa integrazione. Lo splendore rinnovato delle città, nelle promesse elettorali di Trump, non deriverebbe da riqualificazioni pubbliche, ma dall’effetto della ripresa delle vecchie industrie, protette dai dazi, che creerebbero lavoro e, perciò, farebbero rinascere le città. Gli oppositori di Trump, ha sostenuto la “London Review of Books”, dovrebbero sfidarlo non sul cattivo gusto ma sulla mancanza di risultati. Non sarà facile farlo in televisone, ora, ma, purtroppo, diventerà inevitabile farlo domani nella realtà.

 Pericoli maggiori e non valutabili

Il pericolo maggiore, anche ecologico, di Trump, del suo unilateralismo, sta nella valigetta col comando sul nucleare che lo segue sempre. Risolvere con la forza problemi intricati è già risultato disastroso in Afghanistan, Iraq e Siria, dove giravano solo proiettili ad uranio impoverito per bucare le corazze dei blindati. Potrebbe essere mortale, letteralmente, per tutto il mondo se si vuol piegare con la forza, non con l’economia e la diplomazia una potenza nucleare, come è stato fatto con l’Iran, che poteva diventarlo. Non si tratta di vincere o perdere, come avevamo ben capito decenni orsono, prima di tornare ad impazzire. Si tratta di quel che resterà dopo, quando il più forte avrà stravinto nell’immediato, ma le radiazione avranno scavalcato i confini, e la rottura dell’equilibrio avrà diffuso la peste della guerra in tutto il mondo. Ci sono almeno altre due potenze nucleari confrontabili con gli Stati Uniti, per non parlare di Pakistan, India e Israele. Staranno a guardare, mentre i loro cittadini muoiono in ogni caso?

 E l’ecologia? E noi?

Se Trump non è così pazzo da ricorrere alla forza diretta su grande scala, il pericolo maggiore è l’inversione della tendenza, l’onda dell’imitazione, la tendenza a barare, anche senza avere la forza per rompere il patto. Già ora, anche se tutti rispettassero l’accordo, l’aumento pericoloso delle temperature continuerebbe. Domani la tendenza a violazioni di fatto crescerà. Brasile ed India davvero smetteranno di tagliare foreste e usare carbone mentre gli Stati Uniti non rispettano i patti? In particolare noi italiani faremo ciò che è necessario fare? La ricomparsa periodica della Carbosulcis all’orizzonte della politica (la fusione dell’alluminio è il processo che usa più energia di tutti), la eterna crisi dell’Ilva di Taranto, la resurrezione ciclica del Ponte di Messina, ci informano che non siamo usciti dal pantano. La politica di Trump può dare il colpo di grazia alla situazione, ma peserebbe molto meno, potrebbe addirittura essere irrilevante, se facessimo la nostra parte, o addirittura più di quanto non sia richiesto dai trattati.

Certo è necessario renderci conto che corriamo pericoli veri, che Trump ci riguarda direttamente, che non è un isolato di cattivo gusto, che rifluirà nella normalità per opportunismo, ma che rappresenta ambienti culturali (Bannon, Tilly, tra gli altri), ha rapporti interni ed esteri, che spingono all’uso della forza, alle armi usate e vendute.

Non è una novità, ma non possiamo fare a meno di una politica di difesa europea. Non possiamo andare avanti a deprecare le sparate di Trump, ma continuare ad ospitare le sue basi perché non abbiamo alternativa. Svegliamoci.