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Giovani promesse da mantenere

I minori stranieri sono ormai 900mila, più della metà dei quali nati in Italia. Le politiche da fare perché l’unica risorsa nuova che abbiamo sia davvero una risorsa

“Promessi Sposi d’Italia… questa cittadinanza s’ha da fare”. Tra i messaggi di augurio al singolare reading promosso per le celebrazioni del 150° da ReteG2 [1] e Save the Children, il più penetrante è stato quello di Azeglio Ciampi, che la metafora l’ha capita al volo. Che decine di ragazzi stranieri di seconda generazione si siano alternati per ore a personaggi della cultura e dello spettacolo in una lettura pubblica delle vicende di Renzo e di Lucia non è stato solo il commovente omaggio al romanzo simbolo dell’Italia Unita – e al famoso sciur Lisander “senatore del regno”. E neppure il segno di una identificazione culturale ormai realizzata. È che oggi sono proprio loro, i giovanissimi stranieri arrivati da piccoli o nati da noi, i fidanzati alle prese con un matrimonio che non “s’ha da fare”. In mezzo ad arrogantissimi Don Rodrigo e a vigliacchissimi Don Abbondio. Quanto tempo ci vorrà prima che si possa materializzare l’agognata cerimonia? Quante conversioni, quanti tumulti, quante – speriamo di no – mortifere epidemie? Nessuno può dirlo, tanto meno oggi che i barconi, Lampedusa e le tendopoli fanno rivivere i fantasmi dell’invasione. Riacutizzando ostilità e chiusure.

Eppure i minori stranieri con residenza regolare sono ormai 900.000, 530.000 i nati in Italia, quasi 100.000 quelli nati nel 2010. Vanno a scuola, lavorano, usano cellulari e pc, tifano per le nostre squadre di calcio, per moltissimi questo è il solo paese che conoscono. Secondo una ricerca della Fondazione Andolf presentata qualche giorno fa al Cnel sugli adolescenti stranieri studenti di scuola superiore, il 70% parla italiano anche a casa, una maggioranza schiacciante si sente perfettamente inserita nel tessuto sociale e ritiene, più dei coetanei italiani, che la loro famiglia sia ben integrata, nel senso di sentirsi a proprio agio nelle regole e nei modi di essere del contesto in cui vive. Non sono ottimisti, però. Il 76,7% non crede di avere qualche possibilità di cambiare il mondo, molti avvertono un clima montante di razzismo e xenofobia, solo il 40% ha in mente di frequentare l’università, il 44,6% vorrebbe andare a vivere all’estero. Pesa, tra tanti altri fattori, quel matrimonio così difficile da celebrare, così ostacolato. Non possono diventare cittadini se non dopo aver compiuto i 18 anni, un tempo che è tutta la loro vita vissuta. I 18 anni, anzi, non bastano perché l’articolo 4, comma 2 della legge 91/1992 richiede come condizione un’assoluta continuità di residenza anagrafica e di permesso di soggiorno. Una legge vecchia, d’altri tempi, che produce effetti disastrosi. Secondo alcune proiezioni, su 100 domande di cittadinanza di 18enni, sono solo 43 quelle a cui si dà effettivamente corso. Così, ogni anno, a migliaia di neo-maggiorenni con nomi stranieri ma nati e vissuti in Italia vengono fornite buone ragioni di recriminare contro quello che sentono come il loro paese.

Secondo Mipex [2], la più vasta ricerca riguardante la legislazione sull’immigrazione (in tutti i paesi dell’Unione europea più Norvegia, Svizzera, Canada, Usa), l’Italia, che è al 14° posto su 31 per politiche che incoraggino gli immigrati a essere parte attiva della società, scende al 19° per quelle a favore delle seconde generazioni e per programmi di istruzione adeguati. Gli studenti figli di genitori stranieri, Gelmini insegna, sono più che altro un problema. Secondo Ocse-Pisa 2009, l’Irlanda e l’Italia sono i soli due paesi in cui il loro successo formativo – anche delle seconde generazioni – è peggiorato rispetto alle edizioni del 2006 e del 2003. Sono, in effetti, molto più esposti al rischio del ritardo scolastico dei coetanei italiani e, soprattutto, sono costantemente sovrarappresentati nei rami bassi del sistema educativo, nel comparto degli istituti e della formazione professionale, percorsi più brevi, più falcidiati dagli abbandoni, orientati al lavoro subito. Come i pluribocciati, i disabili, i figli degli operai e dei disoccupati di casa nostra. Anche se gli insegnanti della scuola elementare dicono che sono più motivati, più impegnati, e per questo anche più reattivi e curiosi dei compagni italiani. Qual è allora il problema? E perché se ne parla così poco?

Negli ultimi venti anni, analizzano i demografi, l’immigrazione straniera è stata l’unica risorsa contro il progressivo invecchiamento della popolazione italiana. Nel 2009, dice l’Istat, il 20% dei nati nel Nord del paese è di nazionalità straniera. Ma non basta. Al ritmo di 150.000 nuovi ingressi regolari l’anno, che è la soglia considerata sostenibile dal governo, nel 2028 la popolazione italiana vedrebbe i suoi residenti precipitare da oltre 60 milioni a 55,7. Ci sarebbero – dice perfino il ministero del lavoro – solo 14 potenziali lavoratori tra i 20 e i 59 anni a fronte di 10 persone over 60. Troppo squilibrio, troppo pochi giovani a fronte di una popolazione sempre più vecchia. Troppo poche energie per l’innovazione e per il cambiamento. Si potrebbe pensare, in fondo, che quelli che in queste settimane attraversano il mare per sbarcare nella vecchia Europa, sono i figli che non abbiamo voluto mettere al mondo. E per di più scolarizzati a spese di altri paesi. Ma sarebbe un pensiero troppo di buon senso per non essere avvertito come audace o trasgressivo. Un pensiero più cauteloso, e però attento al futuro del paese dovrebbe comunque suggerire di smettere di tenere fuori dalla cittadinanza almeno i ragazzi figli di genitori stranieri che sono nati da noi o che sono arrivati da bambini. Non abbiamo bisogno che una parte sempre più importante dei nostri giovani macini rancori e risentimenti. O che si senta prima o poi frustrata per non aver potuto riscattarsi in tempo da una condizione di minorità sociale. Non è vero che l’immigrazione sia sempre e comunque una risorsa. Per esserlo stabilmente, anche in prospettiva, ha bisogno di un’altra risorsa, cioè di nuove politiche per l’immigrazione. A partire da quelli che, in senso tecnico, non sono affatto immigrati. E che, non a caso, non vogliono sentirsi definire in questo modo.

[1] ReteG2 è l’associazione delle “seconde generazioni”, nata nel 2005 a Roma ed estesasi poi a livello nazionale. www.secondegenerazioni.it [2] www.MIPEX.UE