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Garantire il reddito o il lavoro? Una ricomposizione possibile

Un sistema di reddito minimo potrebbe sostenere i salari e favorire il lavoro, oltre che proteggere il reddito ed evitare la povertà. Come si lega a tassazione e relazioni sindacali. La discussione di sbilanciamoci.info

Sbilanciamoci.info ha aperto un’utile discussione sul reddito minimo, con la presentazione della proposta di legge d’iniziativa popolare sul reddito minimo garantito (1). La proposta è stata avanzata da movimenti e forze politiche e riflette la diffusa percezione che le condizioni di disoccupazione e di precarizzazione, non solo dei giovani ma anche degli anziani, rendano urgente introdurre forme di garanzia del reddito per assicurare condizioni minime di vita individuale necessarie anche a contrastare la crescente insicurezza che mina la coesione sociale. Una garanzia di reddito è uno strumento che in Italia manca, ma è presente nelle altre nazioni europee, seppur in modo differenziato per quanto riguarda i soggetti interessati, le modalità di erogazione, le condizioni per poterne usufruire (un’utile sintesi e un confronto internazionale è in Bin Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile: www.bin-italia.org/informa.php?ID_NEWS=423).

La proposta di legge è un tentativo generoso di indicare una via d’uscita dalla crisi in quanto prospetta un assetto di politica economica radicalmente diverso da quello con il quale vi siamo entrati e che ci sta costringendo nel lungo travaglio di questa crisi “infinita”. È un cambio di ottica radicale poiché pone come obiettivo centrale della politica economica non la pretesa efficienza e stabilità dei meccanismi di regolazione di mercato, ma le condizioni e le prospettive materiali del lavoro, di chi ce l’ha e di chi non ce l’ha.

Le politiche attuali accentuano il contenimento dei redditi salariali, l’elusione dei diritti, la precarizzazione della vita dei lavoratori; rendono tutto questo un elemento strutturale dell’assetto del paese, con una spirale che ha radici lontane e una drammatica prospettiva futura. L’economia è segnata dalla doppia tendenza alla delocalizzazione delle produzioni a più alta intensità di lavoro e a un’innovazione tecnologica risparmiatrice di lavoro; il mondo del lavoro, in assenza di appropriati interventi alternativi, si trova così stretto in una tenaglia in cui il dilemma è tra una perdita (in quantità e di qualità) di occupazione e una perdita nei livelli salariali. Si tratta, in ogni caso, di una regressione nelle prospettive di vita per ampi strati della popolazione, siano lavoratori o aspiranti tali, siano giovani o vecchi, siano precari o garantiti.

Da tempo vi è la consapevolezza che le difficoltà occupazionali non siano un fatto congiunturale, ma l’espressione di fondamenti strutturali che preesistono alla crisi e che rischiano di risultare accentuati in futuro. Ha fatto bene Laura Balbo (www.sbilanciamoci.info/Disoccupato-dell-anno.-Quale-15034) a richiamare su queste pagine l’attenzione alle radici del deterioramento delle condizioni del lavoro, così come l’analisi di Lia Fubini (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Lavorare-meno-per-un-new-deal-verde-15172) a sollecitare iniziative per scongiurare una prospettiva così drammatica attraverso una necessaria redistribuzione del lavoro.

Lo stesso Ocse conferma implicitamente queste analisi quando, nel suo rapporto sulla crescita globale nel lungo termine (www.oecd.org/eco/outlook/2060%20policy%20paper%20FINAL.pdf), rileva che, estendendo lo sguardo fino al 2060, il tasso di crescita del prodotto interno del nostro paese si aggirerà interno all’1,5% (quello pro-capite poco di meno). Considerato che, a livello di sistema, non è pensabile che la produttività per unità di lavoro non possa crescere a un tasso inferiore dovendo l’economia mantenere un livello accettabile di competitività, si dovrebbe dedurre che il volume dell’occupazione (le persone occupate o le ore lavorate) non si modificherà sostanzialmente nel corso di questo lungo periodo; ciò risulta confermato dalla valutazione che lo stesso Rapporto dà della stagnazione del nostro tasso di partecipazione (previsto al di sotto del 50%). Per quanto possono valere queste valutazioni a così lungo periodo, esse comunque segnalano una situazione strutturale in cui l’offerta di lavoro eccede sistematicamente la domanda e quindi l’esclusione inevitabile e sistematica di una consistente fascia di popolazione dalle opportunità di impiego e l’assoggettamento a un continuo carosello tra disoccupazione e occupazione in lavori precari.

Per quanto si possa essere convinti che sia il lavoro e non il reddito il fattore decisivo per la realizzazione dell’individuo e per uno sviluppo di qualità della società, ci si deve preoccupare che la mancanza di un’occupazione stabile e dignitosa e il ridimensionamento della quota di reddito da lavoro complessivo non si traducano in un fattore disgregante del corpo sociale. Una politica economica di sostegno della domanda e politiche fiscali di perequazione potrebbero sostenere la quota del reddito da lavoro, ma, nelle condizioni strutturali che viviamo, esse appaiono ampiamente insufficienti: il reddito di sopravvivenza non può dipendere in assoluto da un’occupazione che i mercati non sono in grado di garantire.

Di fronte a una politica dell’offerta che penalizza il lavoro, è necessario pensare a un’alternativa che, ponendosi allo stesso livello di complessità, metta il mondo del lavoro al centro dell’iniziativa di riorganizzazione istituzionale per disporre di modalità per distribuire e redistribuire lavoro e reddito. Facendo tesoro dell’ampio dibattito che si è da tempo sviluppato in Italia (oltre che a livello internazionale) sulle modalità con le quali va articolato un basic income, mi sembra ragionevole rilanciare la discussione partendo da una proposta semplice e radicale e ragionare sulle implicazioni che ne possono derivare. Ritengo che un’iniziativa di garanzia del reddito non possa che: (a) riguardare tutti i cittadini, ovvero avere carattere universale; (b) essere incondizionata; (c) avere come obiettivo il ridimensionamento delle condizioni di precarietà dell’offerta di lavoro. Quest’ultimo aspetto richiede che l’intervento non riguardi solo la sicurezza sociale ma risulti intrecciata a opportuni interventi di politica fiscale e politica sindacale.

In questa mia valutazione, il reddito di cittadinanza dovrebbe essere garantito a livello di singolo individuo attraverso un assegno destinato all’universalità dei cittadini per l’intero corso della loro vita, qualsiasi sia la loro posizione lavorativa, il genere e l’età. Si tratterebbe di un reddito incondizionato, dove l’unico requisito sarebbe l’essere “cittadino italiano” e quindi disporre di un codice fiscale; l’assegno è versato su un “conto fiscale” intestato alla singola persona. Il reddito di cittadinanza dovrebbe essere fiscalmente esente da imposte personali e dai contributi sociali, sia di quelli a carico del soggetto che dell’eventuale suo datore di lavoro. L’amministrazione pubblica dispensa l’assegno, ma, nel caso degli occupati e dei pensionati (e soggetti con analoga regolare remunerazione nel tempo), è l’impresa o l’amministrazione previdenziale a erogare la parte del salario o stipendio corrispondente al reddito di cittadinanza sul conto fiscale del soggetto. Alla cessazione o interruzione del rapporto di lavoro l’onere della sua corresponsione passa all’amministrazione pubblica. Il reddito di cittadinanza riassorbe tutti i sussidi (di disoccupazione, di povertà ecc.) e le prestazioni sociali (pensioni sociali ecc.) esistenti; esso può essere integrato da assegni integrativi per specifiche situazioni dovute a motivi sociali (varie inabilità) o per condizioni lavorative (pensioni integrative, cassa integrazione ecc.), le cui finalità, essendo nettamente distinta da quella del reddito di cittadinanza, vanno trattate in maniera del tutto distinta.

A giustificazione di una proposta a carattere universale non vi è solo l’obiettivo di favorire un assetto sociale che contrasti povertà e insicurezza, ma c’è anche la necessità di riconoscere che le “diversità” che si registrano nella società non sono frutto esclusivamente di comportamenti individuali, bensì di circostanze storiche collettive. Si deve considerare che una quota della produttività di cui le imprese si appropriano dipende dall’utilizzo di risorse umane (istruzione, cure famigliari ecc.), sociali (fiducia, cooperazione ecc.), ambientali (natura, infrastrutture ecc.) che sono disponibili liberamente in quanto frutto di una passata attività collettiva (pubblica e privata) non appropriabile; è per questo che si deve riconoscere che la parte del prodotto dell’impresa imputabile alla produttività sociale di queste risorse, e quindi il corrispondente reddito, dovrebbe costituire un reddito “comune” che va distribuito tra tutti coloro che fanno parte della società. Il reddito di cittadinanza dovrebbe essere quindi inteso come un “dividendo sociale” corrisposto ai cittadini di una comunità a titolo di compartecipazione al prodotto sociale risultante dalle diverse attività economiche rese possibili o potenziate dall’utilizzo delle risorse indisponibili e indivisibili della comunità.

Il fatto di considerare questo reddito esente dall’imposizione fiscale sulle persone fisiche e sull’impresa avrebbe importanti implicazioni. Per quanto riguarda i singoli soggetti, un reddito universale esente definisce una base incomprimibile della famiglia e aumenta proporzionalmente all’aumentare dei soggetti che vi partecipano. L’impresa, d’altra parte, avrebbe la convenienza a tenere rapporti di lavoro regolari per poter sfruttare l’esenzione fiscale e contributiva sulla parte dei salari relativa al reddito di cittadinanza, favorendo l’emersione del sommerso. L’obbligo di segnalare le variazioni nella posizione lavorativa (in entrata e in uscita) del lavoratore poiché essenziale per individuare il soggetto che è tenuto a corrispondere l’assegno (impresa o amministrazione pubblica), rende possibile il continuo monitoraggio di chi e come beneficia dell’assegno. Il fenomeno del lavoro “nero” dovrebbe quindi essere ridimensionato; un tale effetto sarebbe rafforzato sottoponendo i lavoratori (e le imprese) che non segnalano il rapporto di lavoro a pesanti penalità (per i lavoratori, la restituzione dell’assegno percepito indebitamente e la sospensione della sua erogazione per un ulteriore congruo periodo; per l’impresa l’obbligo a trasferire all’amministrazione pubblica le somme precedentemente non versate al lavoratore).

Ma, al di là degli interventi di controllo e repressione, l’introduzione di un assegno così strutturato potrebbe avere un effetto importante se la riorganizzazione del lavoro dell’impresa si sviluppa in un contesto di redistribuzione del lavoro a livello generale. Ciò potrebbe essere realizzato articolando l’imposizione fiscale e contributiva sul salario eccedente il reddito di cittadinanza sulla base dell’orario di lavoro: più bassa per il reddito da part-time; più alta per il reddito da orario normale; più alta ancora per il reddito del lavoro straordinario. Una fascia di soggetti potrebbe preferire orari più ridotti dato che il reddito da tale attività integrato con il reddito di cittadinanza potrebbe raggiungere livelli soddisfacenti (presumibilmente superiori agli attuali redditi precari). L’impresa d’altra parte potrebbe scegliere in maniera più flessibile la combinazione degli orari, part-time e full-time, in maniera più consona alla sua organizzazione (o riorganizzazione) produttiva. L’espansione del lavoro a tempo parziale è, non va dimenticato, un obiettivo essenziale per allargare le opportunità di lavoro e ridurre l’inoccupazione strutturale esistente e prevista.

Il modello redistributivo del reddito che viene qui prospettato accentua la rilevanza dell’intervento sindacale poiché nella contrattazione, sia salariale che normativa, si trova a dover trovare un raccordo tra le esigenze differenziate dei lavoratori e le necessità dell’organizzazione produttiva dell’impresa; non si dovrebbe trascurare che la contrattazione sul part-time dovrebbe essere interpretata come un “contratto di solidarietà” di carattere nazionale.

Non è prevedibile che tutti i soggetti beneficiari del reddito di cittadinanza siano assunti da un’impresa. Non è escluso, anzi, che si espanda il lavoro indipendente, la cui attività produttiva sarebbe gestita in maniera analoga alle attuali partite Iva. Anche l’assegno del titolare autonomo costituirebbe reddito esente fiscalmente e le aliquote fiscali sul reddito eccedente dovrebbero essere equiparate a quelle del lavoro (part-time e full-time) delle imprese. Il reddito di cittadinanza potrebbe risultare funzionale alle intraprese di autoimpiego, di autopromozione della propria imprenditorialità, fornendo quel minimo di sicurezza ai singoli (o collettivi) che investono nei propri progetti; un analogo sostegno si avrebbe per coloro che si impegnano in altre attività non remunerate, quali quelle non-profit. Va da sé che l’esistenza di un reddito di cittadinanza potrebbe indurre nelle persone un atteggiamento non meno, ma più choosy, secondo l’espressione della nostra ineffabile Ministra, ma offrire loro l’opportunità di scegliere con più consapevolezza il proprio lavoro non è un fatto disprezzabile dato che queste scelte sono per il singolo soggetto quelle decisive per il processo di formazione della propria personalità.

Il reddito di cittadinanza dovrebbe attivare una controtendenza rispetto alle direzioni correnti che mirano all’allungamento dell’orario di lavoro e alla precarietà (sia come continuità che come remunerazione) del rapporto di lavoro. In prospettiva, esso dovrebbe mirare alla riduzione dei tempi di lavoro individuali e all’ampliamento del numero di persone coinvolte nel processo produttivo e, nel contempo, migliorare le condizioni di vita dei lavoratori per la minore insicurezza e la minore soggezione a una domanda di lavoro dai caratteri precari. Naturalmente, l’esistenza di un reddito di cittadinanza riduce (irrigidisce) l’offerta di lavoro eliminando le forme di precariato più vessatorie e ponendo un pavimento ai salari contrattati e quindi contendo le spinte alla disuguaglianza dei redditi e alla povertà. Un effetto a livello ancor più generale si potrebbe avere se la garanzia fornita dal reddito di cittadinanza favorisce la ricostruzione di forme di solidarietà tra settori, tra generazioni, in quanto tutti godono di un ancoraggio, per quanto minimo, che li ripara dalla variabilità (esterna e interna) delle opportunità lavorative. Non va trascurato inoltre che esso potrebbe rappresentare un efficace sostegno per tutte quelle attività (soprattutto di cura interne e esterne alla famiglia) che, essenziali per il benessere della popolazione, non trovano alcun esplicito riconoscimento del loro valore sociale.

L’introduzione di un reddito di cittadinanza costituisce naturalmente un progetto costoso. Il suo onere finanziario diretto può comportare un maggiore impegno dell’amministrazione pubblica non inferiore al centinaio di miliardi a regime. A tale impegno finanziario si deve aggiunta le minori entrate fiscali per l’esenzione fiscale e contributiva dell’assegno nonché per l’eventuale sviluppo delle posizioni lavorative part-time che ne potrebbero conseguire; ma proposte di riduzione delle imposte sono ampiamente sul tappeto e questo modo di ridurle mi sembra tra le più preferibili. Non va peraltro trascurato che l’introduzione di un reddito di cittadinanza comporterebbe una non irrilevante riduzione di spesa per l’eliminazione (o comunque il ridimensionamento) di quell’ampia gamma di sussidi e di trasferimenti sociali (sussidi di disoccupazione, pensioni sociali ecc.) che sarebbero riassorbiti nel nuovo quadro redis ributivo. Ancora, non va sottovalutato il ridimensionamento (o comunque la drastica semplificazione) dell’attuale apparato amministrativo, e la notevole riduzione dei costi burocratici, dovuto all’eliminazione di tutti quegli interventi di welfare che verrebbero sostituiti dal reddito di cittadinanza.

Si deve infine rilevare che il reddito di cittadinanza fornisce alla politica economica uno strumento flessibile per una politica dei redditi; un tale strumento potrebbe permettere di governare (attraverso l’indicizzazione ai prezzi o alle variazioni dell’Iva, con variazioni nelle aliquote fiscali e contributive ecc.) l’evoluzione delle condizioni, sia strutturali che congiunturali, del mondo del lavoro. Ma soprattutto permetterebbe di meglio programmare tutte quelle attività collaterali di promozione all’avviamento al lavoro, all’istruzione, alla formazione culturale e professionale per costruire (o ricostruire) le capacità individuali per una più adeguata partecipazione all’attività produttiva, sia di mercato che non di mercato. Anche il contrasto della povertà e dell’esclusione sociale risulterebbe più efficace in presenza di persone dotate di un minimo per la loro sopravvivenza; non è quindi in contrasto con ipotesi variamente avanzate di lavori di cittadinanza, di lavori utili e di altri progetti di intervento finanziati pubblicamente che risulterebbero, in questo quadro redistributivo, iniziative opportune non solo in quanto integrazione del reddito di cittadinanza, ma anche perché i soggetti coinvolti non li considererebbero una forma mascherata di sussidio, ma una vera partecipazione a progetti di rilevo.

(1) www.sbilanciamoci.info/Reddito-minimo-garantito-la-proposta-di-legge-d-iniziativa-popolare-18109; www.sbilanciamoci.info/Reddito-minimo-come-si-potrebbe-fare-18107 ; www.redditogarantito.it/#!/home