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Finanza (non) sostenibile

La finanza “sostenibile” sembra ormai essere diventata un must. La sostenibilità può davvero rianimare il nostro settore bancario in crisi e orientarlo verso un’economia decarbonizzata e al servizio dei diritti e del lavoro: basta che non sia l’ennesima operazione di marketing a vantaggio del “business as usual”.

Da anni Sbilanciamoci! si batte per una finanza sostenibile: al servizio dei diritti, del lavoro, dell’economia reale. Molte organizzazioni aderenti alla campagna sono tra le fondatrici di Banca Etica, e tra le proposte della “Controfinanziaria” sottolineiamo la necessità del sostegno alla finanza etica: la norma (ancora insufficiente) di riconoscimento della finanza etica nella Legge di Bilancio del 2016 è anche il frutto delle nostre continue richieste.

Ora la finanza sostenibile è diventata un must: ne parlano tutti e tutti si fregiano del marchio della sostenibilità, anche le grandi banche – come Intesa San Paolo e Unicredit – che con una imponente operazione di marketing cercano di attirare l’attenzione dei possibili clienti sulla bontà del loro business. E magari finanziano le industrie delle armi, imprese che inquinano e si dedicano ad affari puramente speculativi, che di responsabile non hanno niente.

Il mondo delle banche è in grande difficoltà. In dieci anni si sono persi 90mila posti di lavoro nelle banche italiane e gli sportelli – oggi poco più di 20mila – si sono dimezzati. Unicredit nelle settimane scorse ha annunciato un piano di ristrutturazione con il licenziamento di 8mila dipendenti e la chiusura di oltre 450 filiali. Più di 400 comuni italiani non hanno nessuno sportello bancario.

La “sostenibilità” può essere una carta da giocare per rianimare il settore bancario, soprattutto per orientarlo verso l’economia reale e in particolare verso un’economia decarbonizzata, condizione per un nuovo modello di sviluppo. Basta che non sia l’ennesima operazione di marketing. Gli investimenti ESG (Environmental, Social Governance) sono ancora molto modesti e in alcuni casi solo sulla carta.

In questo contesto, come racconta Alessandro Messina sul nostro sito, un ruolo importante potrebbero giocarlo i fondi pensione, se fossero indirizzati nella giusta direzione. Ma “su 100 euro gestiti – spiega Messina – solo 24 restano nel nostro territorio e solo 3 vanno a finanziarie imprese e attività produttive”. E di questi 3 euro solo il 10% va in investimenti ESG.

I fondi pensione possono essere un grande strumento per un nuovo modello di sviluppo, ma bisogna cambiarne la filosofia e l’indirizzo. Anche da qui passa la strada di una finanza sostenibile per un nuovo modello di sviluppo: una finanza legata al territorio e all’economia reale, alle nuove produzioni e consumi. Ed è per questo che bisogna respingere i processi di concentrazione e di omologazione di questi anni.

La biodiversità del sistema bancario è una risorsa fondamentale, ma purtroppo è stata incrinata fortemente negli ultimi vent’anni. Abbiamo bisogno di una reale e radicale riconversione ecologica e sociale del sistema bancario: non facciamoci ingannare dal marketing arrembante di questi tempi che nasconde il business as usual.