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Dallo stop al consumo del suolo ai David di Donatello

Le città/ Gli insediamenti urbani non sono neutri, hanno valore e creano tessuti connettivi delle comunità che li abitano. Napoli e Roma hanno scelto due strade diverse sullo stop al consumo di suolo con riflessi sull’anima delle due città.

 

Per chi fa il mio mestiere, l’argomento più discusso degli ultimi anni è certamente il consumo del suolo, o meglio il modo per azzerare, ridurre o contenere il consumo del suolo, il più rovinoso fattore di crisi della condizione urbana, almeno in Italia. Gli osservatori più attenti, primo come sempre Antonio Cederna, cominciarono a denunciare la dissipazione del territorio negli anni Sessanta del secolo scorso raccogliendo consenso solo in settori dell’ambientalismo e dell’intellettualità progressista, nel disinteresse della politica, salvo pregiate eccezioni (Fiorentino Sullo).

Alla fine, recentemente, sotto la spinta delle istituzioni europee, anche il mondo politico ha dato segni di vita mettendo mano a un complicatissimo e sostanzialmente inutile disegno di legge, che pure è stato condiviso da tutte le parti, peraltro senza approdare al voto finale nella scorsa legislatura.

Non tema il lettore, non intendo raccontare anche su queste pagine perché è sbagliata la proposta del governo, cerco invece di esporre una riflessione credo inedita – e spero che non sia esagerata – sulle conseguenze positive dello stop al consumo di suolo. Molte conseguenze sono note e facilmente comprensibili: dalla salvaguardia di spazi naturali e verdi che riducono l’inquinamento e catturano CO2 alla riduzione dei costi di urbanizzazione e dei servizi, in particolare dei trasporti. Altre conseguenze sono invece meno immediatamente intuibili, ma secondo me di enorme  importanza, questo il punto sul quale vorrei avviare una discussione.

Al centro del ragionamento c’è Napoli. Se molti sanno che il consumo del suolo è un fenomeno diffuso in quasi tutto il nostro Paese – sia pure in forme diverse e diversamente dannose, legali e illegali – sono pochissimi a sapere che Napoli fa eccezione. Il capoluogo della Campania è infatti l’unico fra i comuni di grande e media dimensione ad aver bloccato il consumo del suolo grazie al piano regolatore approvato nel 2004 che vieta nuove espansioni urbane, limita cioè l’attività edilizia a interventi di trasformazione, ristrutturazione, restauro, risanamento e così via.

È passato quasi un quarto di secolo dall’approvazione del piano e l’estensione della città è rimasta quella degli anni Novanta: il paesaggio collinare che cinge la città da Est a Ovest, da Capodichino ai Campi Flegrei è rimasto integro, destinato all’agricoltura e a parco territoriale. Ed è straordinario che proprio la città immortalata da Francesco Rosi a simbolo del malgoverno urbanistico sia quella che ha imboccato per prima la strada del risparmio dello spazio urbanizzato, una notizia che cancella montagne di stereotipi e che meriterebbe più attenzione di quanta ne abbia avuta finora.

Ma qui m’interessa mettere in evidenza che lo stop al consumo del suolo, determinando la conservazione della tradizionale compattezza dell’abitato (cioè una più alta densità insediativa), produce anche la conservazione dei valori identitari della città, e quindi un rapporto fecondo e creativo fra i luoghi e chi li vive. Questa convinzione l’ho maturata nei mesi scorsi, al tempo dei David di Donatello, con Napoli indiscussa protagonista, quasi tutti i premi più importanti assegnati a film napoletani o girati a Napoli, ad attori o autori napoletani: una conferma della vivacità culturale che attraversa la città, da Scampia al centro storico.

Prima che un severo lettore me lo faccia osservare, so bene che altri sono i problemi, l’evasione scolastica, le “stese” dei minorenni, un’ora di attesa per prendere un autobus. Ma tutto ciò non invalida il fatto che una più alta densità possa essere uno dei fattori che generano effetti vantaggiosi, anche nel mondo dell’arte.

Mi permetto un confronto con Roma che, al contrario di Napoli, è una città sempre più sparpagliata, con un’ormai infima densità insediativa, circa la metà di quella napoletana, e in continuo decremento. La disgregazione urbanistica – il centro storico manomesso, il favoloso Agro Romano dei secoli passati frantumato in brandelli discontinui, soprattutto abusivi – insieme alla forma spegne anche l’anima della città, e la sua capacità espressiva.

(articolo per Sbilanciamoci.info, 13 maggio 2018)

Vezio De Lucia è urbanista, ha appena dato alle stampe il suo ultimo libro “Napoli, promemoria”, edito da Donzelli