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Da Versailles a Maastricht

L’Europa ripete gli errori del 1919 e dimentica le lezioni di Keynes. La paralisi di oggi ci viene dall’ossessione per la “disciplina” del debito, dall’impossibilità di estendere il modello tedesco e dall’incapacità di riorientare l’opinione pubblica. Così l’austerità sta uccidendo la crescita (*)

“La politica di ridurre la Germania in servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani e di privare un’intera nazione della felicità dovrebbe essere odiosa e ripugnante: odiosa e ripugnante anche se fosse possibile, anche se ci arricchisse, anche se non fosse fonte di rovina per tutta la vita civile d’Europa. C’è chi la predica in nome della giustizia. Nei grandi eventi della storia umana, nel dipanarsi degli intricati destini delle nazioni, la giustizia non è tanto semplice. E se pur lo fosse, le nazioni non sono autorizzate, dalla religione o dalla morale naturale, a punire i figli dei loro nemici per i misfatti di genitori o di governanti”. Così scriveva Keynes nella sua appassionata e disperata arringa contro le esorbitanti riparazioni imposte, nel trattato di pace firmato a Versailles nel 1919, dalle potenze vincitrici alla Germania sconfitta. Condizioni economicamente e finanziariamente impossibili da soddisfare, ispirate più al principio del “castigo” che della riparazione, sorde a considerazioni di capacità effettiva di pagare e dei costi, economici e sociali, imposti alla popolazione.

A distanza di un secolo, gli attori si sono scambiate le parti, ma la tragedia sulla scena è la stessa. Qui ora si tratta di debito piuttosto che riparazioni, ma il principio non cambia: delitto e castigo. Questo è stato il principio ispiratore nella gestione della crisi dell’eurozona fin dall’inizio: il virtuoso Nord non doveva pagare per la prodigalità e l’irresponsabilità dei cugini del Sud. E dunque l’aiuto è stato dapprima negato, poi concesso col contagocce, e solo quando si era sull’orlo del precipizio: sempre troppo poco, sempre troppo tardi, sempre troppo oneroso. E mano a mano che la crisi si espandeva a macchia d’olio – dalla Grecia ai PIIGS, al debito sovrano, alle banche – cresceva il risentimento e il rancore dei “salvatori” e la disperazione e la rabbia dei “salvati”.

È stato ben presto chiaro ai più che la medicina imposta ai paesi indisciplinati avrebbe comportato costi enormi, quanto vani: tagliare salari e spesa pubblica, aumentare imposte e tariffe, liquidare i dipendenti pubblici, svendere le imprese e le proprietà pubbliche in una situazione di crisi già grave e in un contesto europeo stagnante avrebbe ammazzato l’economia, falcidiato il reddito, e aumentato il debito. Che questa concatenazione di scelte suicide avrebbe trascinato con sé nella rovina anche i creditori, era altrettanto chiaro: non solo le banche e l’economia dell’Europa, ma il mondo intero. L’Europa, ammonisce allarmato il presidente degli Stati Uniti, sta spaventando a morte il mondo.

Perché dunque, di fronte all’evidenza, non è stato possibile interrompere la concatenazione di scelte suicide? Perché non è stato possibile intraprendere un’altra strada? Tre sono le risposte, non necessariamente alternative, che potremmo sinteticamente riassumere così: il principio calvinista che chi infrange le regole va punito, la certezza che la virtù (austerità) porterà alla stabilità, alla fiducia e alla crescita, il convincimento che un’alternativa non è politicamente possibile, in quanto va contro l’opinione pubblica.

Il punto di vista della Germania (e dei paesi virtuosi, cioè creditori) è semplice: i paesi del sud si sono indebitati fino al collo approfittando dei bassi tassi di interesse garantiti dalla partecipazione alla moneta unica. Ora sono puniti dai mercati e devono imparare la disciplina. Alla base vi è dunque una diagnosi (sbagliata) delle origini della crisi del debito greco, e del problema dei PIIGS in generale, che addossa la responsabilità degli squilibri unicamente sui paesi in deficit. Vizi e virtù possono essere chiaramente distinti e distribuiti. Questo dimentica per esempio che prima della crisi la Spagna aveva un rapporto debito/PIL più basso della Germania, e che i suoi problemi attuali derivano da una bolla immobiliare che ha inflazionato prezzi e salari, minandone la competitività senza possibilità di svalutare; o che la Germania stessa ha infranto il limite del disavanzo negli anni in cui era lei ad essere “il malato d’Europa”. Ma non è questo il punto.

Per l’elettore tedesco il miracolo economico tedesco del dopoguerra è stato costruito su una combinazione di finanze prudenti, valuta forte, moderazione salariale, poderose esportazioni, e gli è difficile immaginare che proprio queste virtù possano essere alla base della crisi presente. La costruzione dell’unione monetaria europea riflette questa stessa distorsione: la convinzione che prudenza, frugalità, efficienza, competitività, che servono bene gli interessi di un paese, se perseguiti da tutti, possano condurre al benessere generale. Questa fede è stata tradotta, nella teoria e nella politica economica, nel principio che i meccanismi che operano dal lato dell’offerta possano essere sufficienti a garantire la coesione e la convergenza di paesi che partono da condizioni economiche e sociali assai diverse. Si è così prestata la massima attenzione a costruire delle regole che vincolassero le politiche nazionali, senza prestare attenzione alcuna a creare le istituzioni necessarie a fronteggiare situazioni di crisi. Alla Banca centrale, limitata nel suo mandato a garante della stabilità dei prezzi, non è stata affiancata nessuna altra istituzione capace di parlare nel nome dell’Europa, e di guidare l’opinione pubblica nella ricerca di una soluzione condivisa della crisi che potesse tener conto degli interessi dei diversi paesi.

L’opinione pubblica, l’elettore, è stata l’ossessione dietro cui si sono nascosti i principali attori politici, in particolare in Germania, nell’odissea infinita della crisi. Ma l’opinione pubblica non è dogmatica e definita, ed è dunque suscettibile di persuasione. Ed è compito dell’élite di guidare piuttosto che essere guidata. Suo dovere è quello di impedire che si apra uno iato troppo grande fra ragione e pulsione, che renda poi impossibile o estremamente costoso il ritorno a soluzioni socialmente ed economicamente realizzabili. Ma proprio qui sta il problema: cosa sia “ragionevole” cioè quale sia il modello teorico che deve guidare l’azione di governo. E, nonostante la gravità della crisi, il modello è rimasto, di fatto, quello illustrato più sopra. La classe dirigente europea ha così continuato a chiedere dosi ulteriori di austerità, accompagnate da condizioni sempre più pesanti e umilianti, al tempo stesso in cui ne riconosceva l’inutilità ai fini di risanamento. La popolazione – gli elettori – chiedono leadership, chiarezza, capacità di decisione e di comunicazione. Il messaggio che è stato trasmesso all’opinione pubblica, invece, è stato incoerente e ambiguo, basato com’era su premesse teoriche continuamente smentite dall’evolversi dei fatti. Questo spiega la politica a dir poco incoerente del cancelliere Merkel, la risposta alla crisi finanziaria “passo dopo passo”, la riforma di bastioni dell’impalcatura teorica e normativa dell’eurozona “un passo alla volta”, che non tengono conto del fatto che i mercati non aspettano, e che più lentamente si agisce, più alto sarà il costo finale. Già l’aumento dell’European Financial Stability Facility (il fondo-salvastati) – così faticosamente approvato dalla Germania nei giorni scorsi, così difficile da far ingoiare alla piccola Slovacchia, che si rifiuta di pagare lei per salvare i più ricchi greci (e su cui la Germania dovrà esercitare tutta la sua influenza) – è stato superato dagli eventi, ed è ormai considerato di gran lunga troppo piccolo rispetto a quanto si ritiene appena necessario per contrastare l’allargamento del contagio a paesi più grandi, come Italia e Spagna.

L’austerità sta uccidendo la crescita in tutta l’eurozona, e finirà per travolgere (ha già cominciato, come dimostrano i dati più recenti sul tasso di crescita tedesco) anche la Germania, aumentando il risentimento della popolazione. C’era spazio – c’è ancora? – per una politica di azione plausibile, capace di arrestare la spirale di crisi e di austerità, per un’opera coordinata di persuasione sulla propria base elettorale a favore di un piano di salvataggio per i paesi in difficoltà (un nuovo piano Marshall europeo), capace di risolvere la crisi nel breve periodo e di formulare una politica di medio periodo che favorisca la crescita e l’occupazione. Il successo di questo piano richiede che due condizioni siano soddisfatte, a livello nazionale e a livello di Unione europea.

Il consenso su un piano coordinato di aiuto esige che si dia risposta alle preoccupazioni tedesche, finlandesi, slovacche. La richiesta di un comportamento solidale da parte delle nazioni creditrici deve andare di pari passo all’offerta di garanzie di un comportamento responsabile e credibile da parte dei singoli paesi ora in difficoltà. Questo spiega il tono particolarmente duro della lettera della Bce al governo italiano. Si può obiettare alle linee di azione proposte, non sulla necessità di riforme strutturali per la crescita. Ma una unione monetaria europea sostenibile nel lungo periodo richiede anche di eliminare le cause di squilibrio che hanno portato alla crisi attuale. È necessario dunque rivedere i meccanismi di funzionamento dell’area dell’euro, partendo da un riesame critico dei meccanismi di aggiustamento, per ridisegnare nuove regole e predisporre politiche capaci di prevenire la creazione di nuovi squilibri.

(*) Quest’articolo è stato pubblicato inizialmente sul sito In genere: www.ingenere.it