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Ambiente e fisco nell’Agenda Monti

Le lacune dell’Agenda Monti su tassazione dei patrimoni, accesso alla conoscenza, politiche per l’ambiente, cambiamento climatico. E le misure possibili per la fiscalità ambientale

A pochi giorni dalla pubblicazione dell’agenda Monti, numerosi sono i commenti sullo spirito complessivo e le specificità dei vari temi presenti (o non). Nella fase attuale è utile commentare la presentazione di agende di politica economica al fine di evidenziare costruttivamente le criticità, debolezze, forze, punti di sinergia con altri programmi ‘politici’, e suggerire spunti di concreta applicazione di principi. Sinergie e concrete applicazioni che possano consentire un cambio di politica economica, che coniughi competitività e sostenibilità, efficienza ed equità.

Vorrei in questa sede soffermarmi sul tema della politica economica relativa al tema ‘ambiente’ (pagine 11 e 12 dell’agenda), sviluppando il mio intervento su Sbilanciamoci dell’agosto 2011 (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/E-arrivato-il-momento-delle-tasse-ambientali-9616).

Devo connettere il tema ‘ambiente’ ad altri, per due ragioni. Prima di tutto, è chiaro anche nell’agenda Monti che la sostenibilità è un concetto che integra pienamente economia, sviluppo, ambiente, e che lavoro e ambiente non sono in conflitto. Almeno, possono non esserlo. Questo nei principi enunciati. In secondo luogo, il tema della ‘fiscalità ambientale’ è interno al più ampio discorso della riallocazione del peso fiscale dalle persone alle cose, dal lavoro ‘verso altre basi imponibili’ (pagina 5 dell’agenda). Verso quali? Quali le opzioni?

1. Patrimoni, fisco, efficienza, equità. In quelle pagine si parla di spostare il peso dal lavoro a ‘grandi patrimoni e consumi’. Qui occorrono una serie di precisazioni. Primo, non deve stupire in un’agenda di politica economica liberal-conservatrice la presenza di imposte sul patrimonio. Esse sono uno dei cardini del buon funzionamento dei mercati, che più concorrenziali sono, in tutti i loro fattori, meglio è. Molti economisti di pensiero conservatore le hanno patrocinate in altri paesi. Diffuso è anche il ricorso a corporate social responsibility e fondazioni d’impresa volte a finanziare beni pubblici nei contesti anglosassoni. La ratio la si trova nel pensiero di filosofi e economisti, tra gli altri John Rawls e Amartya Sen. Occorre qui sottolineare il ruolo dello spesso de-enfatizzato ‘secondo teorema dell’economia del benessere’, pur presente in tutti i testi di microeconomia, che separa concettualmente il perseguimento degli obiettivi di equità ed efficienza. In altre parole, entro un sistema di mercato che può garantire efficienza, attraverso azioni fiscali sui patrimoni lo Stato può rendere più eguali le ‘dotazioni iniziali’. Efficienza ed equità sono quindi perseguite congiuntamente, si mitigano gli usuali conflitti tra i due macro-obiettivi di ogni politica. Sulla necessità di perseguimento di una maggiore equità si vedano oggi le ricostruzioni storiche sulla distribuzione del reddito di Thomas Piketty, raccolte persino da The Economist nel corso del 2012. Siamo ‘ritornati’ agli anni venti, dopo un ‘minimo’ di diseguaglianza raggiunto negli anni settanta. Il deficit di equità distributiva oggi mina la crescita tout court.

Tuttavia, ritengo più coerente – qui è il suggerimento – utilizzare il gettito delle tasse patrimoniali (su attività finanziarie, dato che quelle immobiliari saranno il pilastro delle risorse dei comuni) per una loro più specifica finalità: eliminazione delle barriere all’entrata e creazione di capabilities. Cosa significa? Finanziamento di borse di studio, di welfare di base (scuola primaria, nidi), posizioni da ricercatore, etc. Potrebbe aiutare, nel contesto italiano, la gestione di queste risorse (10, 15, 20, 25 miliardi di euro? Dipende dal design impositivo, la base imponibile è ampia) via fondazioni (in un’ottica di tax earmarking), se il calderone della finanza pubblica è ritenuto non (più) trasparente. Su questo punto – la patrimoniale, l’uso del suo gettito – ampie sinergie politiche possono concretamente essere ricercate. La diseguaglianza si misura in reddito e in possibilità di accesso ai mercati.

2. Accesso ai mercati della conoscenza. Con una breve digressione dal tema principale, partendo dal tema delle ‘capabilities’, occorre dire che l’’accesso’ pare essere oggi il tema vero nei mercati della ‘conoscenza’, della scuola e della ricerca, da affrontare con serietà teorica ed empirica. Non tentando (solo? ancora?) di imitare modelli altri, peraltro già in via di ripensamento. (www.economist.com/news/united-states/21567373-american-universities-represent-declining-value-money-their-students-not-what-it). Mi riferisco all’editoriale di Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera del 27 Dicembre, i quali chiedono meno Stato in generale, e più elevate tasse d’iscrizione per la mediocre (secondo loro) Università Italiana. Che ha tanti e noti problemi, ma è sesta al mondo, in queste Olimpiadi, anche nel nostro ambito socio economico (fonte: REPEC, Novembre 2012). Nello sport andiamo peggio. Le tasse d’iscrizione, inoltre, non sono il problema centrale. Notiamo, portandoci al punto successivo, che possono essere tanto più alte quanto più competitivo è il sistema economico, le remunerazioni dell’investimento in capitale umano (leggasi elevati salari per i neolaureati). Le tasse d’iscrizione sono un elemento del più complesso tema dell’accesso ai mercati (della conoscenza, del lavoro).

3. Fiscalità ambientale. Il tema della competitività ci porta verso la questione dell’ambiente e della fiscalità ambientale. Su questi punti l’agenda Monti pare non centrare i punti cruciali dell’ampio tema economico-ambientale. Occorre una visione più ampia, più sinergica, più orientata alle esperienze europee e al futuro. Non citare il cambiamento climatico come arena politica, economica, sociale di riferimento per le dinamiche future è una grave mancanza, che impedisce di ragionare compiutamente del ruolo dell’Italia nei mercati internazionali. Il climate change è un tema ambientale, economico, tecnologico cruciale, che deve essere posto al centro delle azioni delle parti sociali e dello Stato. Lo è nella maggior parte dei grandi paesi europei, Germania e Regno Unito in primis.

È troppo generico il richiamo alle politiche verso l’economia verde, con nessun riferimento, sul lato delle emissioni inquinanti e dei gas serra, alle politiche europee, le quali prevedono tagli alla CO2 emessa tra il 20 e 50%, entro il 2030-50. Nessun riferimento a radicali e necessarie ‘decarbonizzazioni’ dell’economia italiana, attraverso innovazione nell’industria e marcato ripensamento del peso relativo del trasporto privato/pubblico. Sono grandi opportunità economico-tecnologiche. La conseguenza è una eccessiva enfasi sul tema ‘energia’, certo correlato a qtutto questo, ma ciò che serve è una strategia finalmente integrata alle politiche europee, che pongono obiettivi ambiziosi da qui al 2020 e oltre. Su questi piani europei il riferimento è vago, seppure sia l’Europa a guidare il processo a livello internazionale. L’Italia, come grande paese e con un’industria ancora forte in certi comparti, non può ‘rimanere indietro’. Le sue performance ambientali non eccelse peraltro riflettono quelle economiche di bassa produttività, e su queste correlazioni occorre ragionare in modo profondo. Le performance dell’export tedesco sono da anni legate a robuste performance sull’innovazione tecnologica a basso impatto ambientale, anche favorita dal contesto di politica economica e industriale.

Sul tema rifiuti, non basta porsi l’obiettivo di ridurre il conferimento in discarica e incrementare il riciclo e recupero dei materiali. Questo andava già fatto, e comunque appartiene al passato delle politiche in campo di rifiuti. Occorre guardare avanti, anticipare per una volta (in questo settore potremmo farlo usando innovazione e competenze esistenti nel paese) e parlare ora di riduzione dei rifiuti generati. Obiettivo peraltro lanciato dalle Direttive europee per il futuro e già presente in alcuni paesi.

4. Nel momento attuale, in cui si cerca di ridisegnare l’assetto di competitività e sostenibilità di lungo periodo dell’economia italiana, sembrerebbe più efficace ridurre il carico fiscale sul lavoro attraverso un incremento delle tasse ambientali. In primo luogo, questa azione è volta a mitigare i conflitti tra ‘lavoro e ambiente’, o meglio valorizzare le complementarietà. La gestione e uso del gettito, spostato da ‘lavoro’ ad ambiente, vede le imprese ed i territori come luoghi principali di interesse e competenza a questo riguardo.

In secondo luogo, la tassazione ambientale parte da livelli quasi pari a zero. Il gettito attuale, costante da un decennio, è nemmeno 1 miliardo di euro, in gran parte legato alla tassa regionale sulle discariche. Gli spazi di incremento di vere e proprie tasse ambientali (su emissioni, CO2, sui materiali ambientalmente più costosi) sono ampi e possono consentire di sgravare di molto il fattore lavoro. Di quanto? Il Tesoro italiano ospitò nel Dicembre 2011 un evento sulla Tassazione ambientale organizzato dalla European Environment Agency. Il documento della EEA – di Mikael Skou Andersen e Stefan Speck – stimava in 35 miliardi circa il gettito da nuove tasse ambientali e minori sussidi impropri (28 miliardi le sole tasse). Tasse sulle emissioni, sui materiali, canoni idrici, etc. Anche i due terzi o la metà di quel gettito potrebbe sostanzialmente abbattere il carico fiscale sul lavoro – e IRAP – per più di un punto di PIL.

Nella delega fiscale era invero riemersa l’ipotesi di carbon tax, legata alla futura nuova Direttiva sull’energia. Le regioni hanno margini ampi di competenza su materiali, risorse, rifiuti, acqua, emissioni locali. Suggeriamo di andare avanti esplorando i margini di intervento, con riforme fiscali verdi a vari livelli.

5. Detto questo, noto come lo sgravio fiscale del lavoro sia necessario, ma non vada enfatizzato in termini di benefici attesi. Rimane un’azione che per lo più incrementa la domanda nel breve-medio periodo. Occorre laicamente ricordare una cosa nota: la competitività di un sistema economico dipende oggi in minima parte dai ‘costi’ (del lavoro etc.) e in gran parte dalla qualità dei beni prodotti e dal loro valore, che dipende dalla struttura produttiva e dall’innovazione. Lascio ad altri più competenti colleghi la parola su come l’azione pubblica di politica industriale e sull’innovazione possa incrementare le performance strutturali di lungo periodo. Tuttavia, una radicale trasformazione dei prezzi dei beni ambientali (tassando quelli più inquinanti, detassando quelli a minore impatto) è necessaria anche a questi fini. Non pare che la Svezia soffra della sua elevata carbon tax, istituita nel 1991 ai tempi dell’agenda Delors, e modificata nel tempo per vari fini di uso del gettito.

Politiche fiscali a saldo zero lasciano ad altre azioni la responsabilità dell’abbattimento del debito: recupero dell’evasione, valorizzazione dei beni demaniali, incremento del PIL. Le politiche fiscali qui discusse possono però concretamente valorizzare i beni pubblici e ridurre il rapporto debito/PIL, aumentando la competitività del paese sia nel breve, sia lungo periodo.